Sei autori in cerca di storie contro guerra e ipocrisia

Erano naturalmente amici, naturalmente anti-revanscisti, naturalmente pacifisti, naturalmente esposti alle accuse di essere «l'estrema sinistra della letteratura», naturalmente presi a male parole dalla critica. È naturale, visto che erano «naturalisti». Erano Zola e i suoi fratelli di penna. E naturalmente era lui, l'Émile ancor fresco dello scandaloso boom dell'Assommoir, il leader di quella ristretta cerchia, di quel cerchio magico che ruotava sull'asse, oliato in chiave meccanicamente deterministica, delle passioni umane. Bando ai romanticismi sognanti e alle psichedeliche ossessioni dei maudit: nella loro agenda c'era spazio soltanto per le declinazioni della psicologia umana e chi ne scriveva doveva farlo applicando il metodo preso a prestito dalla scienza positivista.
Ebbene, che cosa c'è di meglio della guerra, per scatenare le reazioni dell'homo non più sapiens del proprio destino? Che cosa, più del terrore, della fame, dell'indigenza può far salire a galla i veri caratteri, meschini o eroici, fatalisti o ribelli? Così Émile, con abile mossa promozionale, durante le riunioni settimanali in casa sua a Parigi o nell'idillico rifugio nell'Île-de-France, tra la fine del 1879 e l'inizio dell'80 fa cadere il discorso sull'invasione prussiana del '70-71, sulla vergogna nazionale che portò a Sedan e alla fine del Secondo Impero. E, come accennato, al revanscismo per la... sconfitta mutilata e al conseguente antimilitarismo strisciante fra le rovine. Ed ecco che, dopo il cast composto dallo stesso Zola e da Guy de Maupassant, Joris Karl Huysmans, Henry Céard, Léon Hennique e Paul Alexis, s'era trovato anche il soggetto di quello che oggi si chiamerebbe «collettivo editoriale». Nacque così il volume collettaneo Les soirées de Médan, che prende il titolo dal vezzoso paesino nel dipartimento degli Yvelines dove il caposquadra soleva gustare gli effetti inebrianti del successo.
Ora Le serate di Médan torna nelle nostre librerie (Elliot Edizioni, pagg. 236, euro 18,50, a cura di Riccardo Reim), recandoci l'odore della polvere da sparo, fedele compagna dei fantaccini al fronte, e della cipria delle madame cittadine, visioni di campi di battaglia e di locande, rumori di schioppettate e di porte sbattute... Recandoci, soprattutto, il clamoroso esordio di Maupassant con la sua Palla di burro. A trent'anni Guy irrompe sulla scena letteraria francese con un quadro perfetto in ogni pennellata: il crescendo della «grande massoneria di coloro che posseggono», dalla piccola borghesia dei coniugi Loiseau alla grande borghesia dei coniugi Carré-Lamadon all'aristocrazia del conte e della contessa de Bréville; poi Cornudet «il democratico», che «il 4 settembre, probabilmente in seguito a uno scherzo, aveva creduto di essere stato nominato prefetto»; poi le due suore che piegano, come tutti gli altri complici, alle ragioni dell'ipocrisia e del bene comune, vale a dire la fuga dai cianotici prussiani infoiati di pallottole e di carne muliebre più o meno fresca, la volontà di lei, la burrosa Elisabeth Rousset, prostituta che paga con l'onta d'essersi coricata accanto al nemico il proprio debito nei confronti della ragion di Stato. Ma scopriamo anche un'altrettanto gustosa (e meno nota) sua simile. È la Huberte Pahauën di Il salasso, pungente cameo in cui Céard mostra splendori e miserie di questa cortigiana: ovvero gli splendori dell'immaginaria ma forse non troppo liaison con Louis-Jules Trochu, presidente del Governo di Difesa Nazionale dopo l'uscita di scena di Napoleone III, e le miserie dell'“esilio” a Versailles, dove la signora Worimann (alsaziana...) la vende all'invasore. Tuttavia il ritorno trionfale in una Parigi «tenace nella disfatta» fa di lei una donna con la D maiuscola...
La Francia è femmina anche in L'attacco al mulino di Zola. Si chiama Françoise, è figlia di papà Merlier, sindaco d'un borgo e proprietario d'un mulino, e ama il bel tenebroso e perdigiorno Dominique, un belga finito lì chissà come e chissà perché. I due si sposeranno, con il beneplacito del burbero ma tenero genitore, il giorno di San Luigi, a fine agosto. Ma il particolare non commuove i brutali prussiani, né prima, né dopo lo scontro a fuoco con i locali e l'arresto dello straniero che la fanciulla aveva fatto fuggire. Ed è femmina, la Marianna Francia, anche in Dopo la battaglia di Alexis. Si chiama Edith, ha sposato un cugino che ha (anzi aveva, visto che la bella signora se ne va raminga per la campagna su un carro dove ha sistemato la bara in cui il consorte riposa) un solo pregio, essere il signore di Plémoran. Un uomo agli antipodi rispetto al timido soldato volontario ed ex abatino Gabriel, un arcangelo che il cielo ha avuto la bontà di donare alla decisionista Edith.
Se ti lasci sedurre dalle loro presenze diametralmente opposte, trovi altre due France in Zaino in spalla di Huysmans e in L'episodio del n. 7 di Hennique. Una è Reine, tenera e fuggevole compagna di viaggio dello studente Eugène verso la capitale, mentre l'altra non ha neppure un nome, è una baldracca da postribolo. Quel postribolo dove a Joliot hanno sparato in faccia, ferendolo a morte. Il nemico non c'entra, colpevole è il padrone del peccaminoso «n. 7».

Frustrati dall'attesa dello scontro, stanchi della loro vita da topi di fogna nel buio della camerata, i compagni del malcapitato lo vendicano in un'esplosione di violenza immotivata. E uccidono proprio lei, la più sporca, brutta e cattiva delle Marianne. Del resto il naturalismo obbedisce alla Natura. E la Natura se la prende sempre con i deboli.

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