Quando sento uno scrittore, un letterato o un filosofo parlare della vita mi rendo conto dell’arretratezza culturale dei cosiddetti umanisti, per i quali l’universo è rimasto quello che era due o tremila anni fa, e sì che alla letteratura, per paradosso, piace molto appellarsi al realismo. Sarà per questo che, da anni, amo leggere testi scientifici, perfino come materia prima per i miei romanzi. La scienza moderna è mediamente più avvincente dell’attuale produzione letteraria, nella quale si guardano ancora il mondo, l’individuo, il cielo o le stelle come li guardavano Dante o Milton, e non c’è niente di nuovo sotto il sole.
Un problema che già si era posto Galileo Galilei: se l’arte sia importante anche da un punto di vista della conoscenza, o se sia puro intrattenimento. Nel primo caso sarà un’attività fondamentale del pensiero, nel secondo, al massimo, una divertente evasione.
Anche la filosofia è cementificata rispetto ai progressi della conoscenza, da Platone a Hegel e giù giù fino al pensiero debole di Gianni Vattimo: i concetti sembrano impermeabili rispetto allo spaventoso progresso epistemologico degli ultimi due secoli, e basta parlare a un umanista di acidi nucleici per essere certi che risponderà per partito preso e senza sapere di cosa state parlando, non gli interessa. Eppure se Spinoza o Kant avessero conosciuto la fisica quantistica, la seconda legge della termodinamica o la composizione del nostro Dna avrebbero pensato pensieri diversi, così come George Eliot o Marcel Proust sentirono il dovere intellettuale di trarre conseguenze dall’evoluzionismo e inglobarlo nelle loro opere. Invece, almeno da noi, le librerie e le terze pagine dei giornali sono affollate di letterati che rispondono a questioni scientifiche con obiezioni superate da oltre un secolo, spesso per fede o in buona fede, per ignoranza, e tra gli scrittori le cose non vanno meglio, gratta gratta viene sempre fuori un teologo mancato. Ecco perché i romanzi più profondi e affascinanti li stanno scrivendo gli scienziati e i più brillanti divulgatori scientifici, con un’opera spartiacque e una data emblematica: il 1859, anno di pubblicazione de L’origine delle specie di Charles Darwin.
Ecco perché, oltre a Darwin, tra i miei scrittori preferiti, tra le opere di cui mi nutro quotidianamente e che regalo volentieri agli amici, ci sono paleontologi come Richard Fortey e docenti di genetica come Steve Jones, attraverso i quali percorrere quattro miliardi di anni di storia evolutiva e scoprire per esempio cosa rende parenti stretti un ippopotamo, una giraffa, un cavallo e una balena, considerando che quest’ultima, all’interno delle pinne, ha ancora le dita di quando camminava sulla terraferma. Stephen Jay Gould vi racconterà la meravigliosa fauna di Burgess, della quale gli intellettuali italiani non parlano e non hanno mai sentito parlare e che invece dovrebbe essere più importante della fiction veterotestamentaria: i nostri antenati non sono Adamo ed Eva, ma piccoli animali dai nomi suggestivi come Hallucigenia, Anomalocaris, Olenoides, Marella Splendens e tanti altri tra cui la Pikaia, un minuscolo vermetto vissuto cinquecento milioni di anni fa, insulso esserino ma all’origine di tutti i vertebrati, incluso l’uomo. Più che Caino, Abele, Abramo o Isacco dovrebbero esserci familiari antenati chiamati Charnia, Spriggina, Pervancorina, Thibrachidium, più del Giardino dell’Eden dovremmo insegnare nelle scuole il Giardino di Ediacara.
Se leggete James Watson e Francis Crick sarete condotti in un viaggio incredibile all’interno della doppia elica del Dna; attraverso il racconto di Neil Shubin vedrete nelle vostre mani ali di pipistrelli o zampe di pollo; i libri di Stephen Hawking dilatano tempo e spazio fino alle origini senza vita dell’universo, tra ammassi di materia oscura, buchi neri, radiazioni cosmiche e Supernovae; John Maynard Smith e Eörs Szathmáry vi accompagnano in un viaggio dalle prime molecole organiche alla nascita del linguaggio. Thomas Metzinger vi racconterà come tutto ciò che percepite non è che una simulazione cerebrale frutto di infiniti adattamenti neuronali, capirete che la fisiologia ha superato Freud e quando qualcuno cercherà di interpretare simbolicamente i vostri sogni vi metterete a ridere. Il vecchio Max Delbrück o il giovane Dan Dennett vi spingeranno nel drammatico confine tra la materia e la mente, e Sean B. Carroll vi spalancherà gli orizzonti della nuova scienza dell’embriologia evolutiva, l’Evo-Devo.
Tra le case editrici di questa vera letteratura d’avanguardia, contrapposta alla letteratura letteraria che ancora si guarda l’ombelico, l’anima, lo spirito, il cuore, spiccano soprattutto le edizioni Codice e la collana Scienza e Idee di Raffaello Cortina Editore, diretta da Giulio Giorello, nella quale esce in questi giorni Genetica del peccato originale, il nuovo libro del premio Nobel per la medicina Christian de Duve. Nei grandi racconti degli scienziati si può retrocedere nello spazio e nel tempo, quando la vita era un muco vischioso sulla superficie degli oceani o formata da archeobatteri capaci di sopravvivere solo a temperature altissime e in assenza di ossigeno, organismi di millesimi di millimetro spesso dai nomi lunghissimi, come i chemiolitoautotrofi ipertermofili. Leggere la storia della vita raccontata dalla scienza relativizza la Storia umana, sopravvalutata dagli storici, dagli artisti, dai filosofi e dai romanzieri: ci si abitua a scale temporali dove un milione di anni è uno scarto irrisorio, e si assiste a uno spettacolo, «il più grande spettacolo della terra», come lo definisce Richard Dawkins nel suo ultimo libro edito da Mondadori, in cui il novantanove per cento delle specie vissute si sono estinte e per il novantanove per cento del tempo biologico l’uomo non c’era.
Eppure il culmine della conoscenza umana è proprio nel suo essere arrivata a comprendere e raccontare la vita oltre i limiti dell’umano, la vita spiegata a se stessa, al di là del bene e del male, una conquista inverosimile della mente. Certamente, si tratta di una storia lunga, crudele, sanguinosa, e senza speranza, rispetto alla quale perfino il marchese De Sade, con la sua esaltazione del male contro il bene, risulta essere consolatorio, e non c’è campo di concentramento che regga il confronto, la natura è sempre peggio. In quanto la sofferenza, l’immane sofferenza degli esseri viventi, non ha nessun fine, ma siamo appunto uomini, tanto più uomini quanto più mettiamo la testa nella verità e non sotto la sabbia, e la verità ha qualcosa di stupefacente. Tuttavia i letterati e i romanzieri sono incapaci di affrontare il non senso. La natura, scrive proprio Dawkins, «non è crudele, è solo spietatamente indifferente. Questa è una delle più dure lezioni che un essere umano debba imparare. Noi non riusciamo ad ammettere che gli eventi della vita possano essere né positivi né negativi, né spietati né compassionevoli, ma semplicemente indifferenti alla sofferenza, mancanti di scopo».
Sarà per questo che, da quando abbiamo acquisito la possibilità del linguaggio, preferiamo rifugiarci nelle favole, e anche questo sarebbe naturale e istintivo, basta non scomodare la realtà, in quanto al momento nessun filosofo, nessun letterato, e pochissimi scrittori, sono in grado di raccontare sul serio la vita.
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