In viaggio sui binari di Karen Blixen

Percorrere il Kenya sul Lunatic Express è un'occasione per riscoprire l'autrice de La mia Africa

In viaggio sui binari di Karen Blixen

Mi racconta Stanley che la fattoria della Blixen, il luogo magico de La mia Africa, è stata da tempo trasformata in museo. Il governo danese ne fece omaggio già negli anni Sessanta a Jomo Kenyatta, primo presidente della neonata repubblica keniota. La proprietaria se n'era andata trent'anni prima, cacciata dalla cattiva gestione degli affari, dai debiti, dalla morte dell'uomo che allora le sembrava la sua unica ragione di vita, da una salute precaria. Narrazione romanzata di una passione per quella terra e chi la abitava, scritto da una donna combattiva, frigida eppure passionale, quel libro, critico verso il colonialismo inglese e il paternalismo ammantato di durezza dell'uomo bianco, ben si prestava all'esaltazione di una repubblica appena sorta. Dopo un inizio stentato, trasformatosi poi in una lunga e mera sopravvivenza, la fattoria è stata ora riportata alla vita per celebrare il nuovo millennio in corso d'opera. «Poiché delle suppellettili originali nella casa era rimasto ben poco, parte del materiale usato per il film di Pollack è stato disinvoltamente inserito nella cornice casalinga» commenta Stanley ridendo. «Distinte hostess in camice bianco te lo segnalano con diligenza mentre ti illustrano ogni particolare dell'abitazione. Curiosamente, la cosa più vecchia, e cioè la casa, che poi, credimi, è una meraviglia, immersa in un prato, le finestre della camera da letto che guardano le montagne, era nel film la più falsa... Troppo piccola per le esigenze sceniche, dissero... E sì che lì c'era stato posto per una festa in onore del principe di Galles e i suoi duecento invitati, l'apogeo della popolarità africana della padrona di casa. E invece, il gigantismo hollywoodiano ci si era sentito stretto...».

In Kenya, ma questo lo so da me, la Blixen arrivò che aveva ventotto anni e ne ripartì che ne aveva quarantasei. In questo arco di tempo contrasse la sifilide per le intemperanze sessuali del legittimo consorte, si ritrovò divorziata, ebbe alcuni flirt e il grande amore con Finch Hatton, non portò a termine due gravidanze, tentò un paio di volte il suicidio, soffrì di depressione e di anoressia. Tanto La mia Africa è un'elegia dove la violenza, delle passioni, delle situazioni, rimane sullo sfondo, tanto la sua vita fu un concentrato di esaltazioni e di depressioni, un susseguirsi di paure incontrollabili, l'ossessione che per lei, alla fine, non ci fosse posto per una nobile sconfitta ma solo per una prosaica e borghese rovina economica... Il ritratto fattole da Irene Bouché poco prima di morire rimanda a un volto stregonesco, scavato e scheletrico, come di chi ha divorato se stessa dall'interno.

Nel libro che le diede la fama solo due volte, di passaggio, viene citata la presenza di un marito che invece contò moltissimo, da cui non avrebbe mai voluto divorziare, del quale fu gelosa, con cui cercò di essere in competizione. Il barone Bror von Blixen-Finecke faceva parte, come Denys Finch Hatton, di cui infatti rimase amico fraterno sia finché Karen fu sua moglie, sia quando Karen divenne di quello l'amante, degli ultimi fuochi dell'aristocrazia ancora accesi, e ridotti in cenere dalla borghesia. Non sapeva far nulla, ma con eleganza. Brillante, spiritoso e per niente meschino, trasformò il fallimento dell'azienda di caffè, messa su con i soldi dei suoceri, nella ritrovata libertà di chi in Africa poteva ancora vivere di ciò che in Europa non aveva più mercato: il coraggio individuale, l'uso del mondo, la passione per la caccia e per i grandi spazi, l'avventura senza fini di lucro, l'attitudine al comando spogliata della sua armatura sociale. Fu il primo ad attraversare il deserto del Sahara in auto, con altri due cacciatori bianchi mise su la Tanganyka Guides Ltd; quando organizzò un safari per il principe di Galles, questi disse che «la sua attitudine verso i leoni era come quella del profeta Daniele»... In Congo girava con uno scimpanzé e aveva insegnato a un pappagallo a dire «vai al diavolo» in più lingue, compreso lo swahili... Dopo la Blixen sposò Jacqueline “Cockie” Birckbek. «Un marito meraviglioso e infedele e il miglior amante che abbia mai avuto» disse lei quando la storia finì. Eva Dickson, pilota automobilistica, fu la sua terza moglie, Beryl Markham, la prima ad attraversare l'Atlantico in aereo da est a ovest, un'altra delle sue conquiste. Un cliente chiese per iscritto che il safari non contemplasse la caccia nel letto di sua moglie. «Se dovessi desiderare che qualcosa del mio passato tornasse, sarebbe ancora un safari con Bror» confessò la Blixen.

Negli anni fra le due guerre, uno dei tormentoni della roaring London era: «Sei sposato o vivi in Kenya?».

Il Kenya si chiamava allora British East Africa Protectorate e ci finivano i cadetti dell'aristocrazia ai quali il non essere primogenito negava le ricchezze di famiglia, i reprobi di qualche scandalo sessuale oppure finanziario, gli espulsi dai college o dalle università più prestigiose, gli spiriti avventurosi per i quali l'Inghilterra aveva l'aspetto di una prigione. C'erano i Delamere, i Soames, gli Erskine, i figli del conte di Enniskillen, il già citato Finch Hatton, figlio del conte di Winchilsea... Intorno a loro, argenterie antiche e servitori kikuyu e masai, ombrelli di Brigg e scarpe di Lobb, Rolls e Bugatti, party e cocktail, aperitivi e cocaina... La comunità delle Tre A venne soprannominata da chi ne faceva parte e per indicare chi ne faceva parte: «Altitudine, Adulteri, Alcol». Karen Blixen delineò quell'ambiente in un racconto, Carnevale, dove a proposito della gelosia la protagonista nota: «La cosa più chic è reprimerla». Ci provò, ma non sempre ci riuscì. Uscita da un'educazione familiare per la quale le donne erano «le schiave civilizzate di barbari ben educati», l'elemento sessuale rimase per lei più uno stato mentale che una realtà carnale, più una costruzione intellettuale che un piacere fisico. Dei suoi settantasette anni di vita, solo diciassette appartengono all'esperienza africana, e furono intervallati da lunghissimi rientri in Europa. Ne uscì di certo cambiata rispetto alla ragazza impacciata, incapace e ribelle che era sbarcata a Mombasa nell'estate del 1914, ma non marchiata. Col tempo l'Africa si trasformò in una memoria dove l'immaginazione riscriveva la realtà: «La verità è roba per sarti e ciabattini. Non c'è mai stato grande artista che non fosse un po' ciarlatano».

Stenio Solinas

© 2013 Neri Pozza Editore

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