Ma D’Alema non rinuncia e pensa allo sgambetto nel duello tra ex del Pci

Luca Telese

da Roma

Lui, «il líder Maximo», è quello che esce da Montecitorio verso sera, dondolando il capo lento, e spendendo una buona parola per «il suo» candidato: «Giorgio Napolitano è entrato cardinale e credo che ne uscirà Papa». E poi, come per fugare il sospetto di cui nessuno parla esplicitamente, ma che è sulla bocca di tutti (quello che l’ex presidente della Camera possa essere sacrificato dopo il terzo scrutinio) per far posto a lui: «Secondo me - aggiunge il presidente dei Ds - chi dice queste cose sono persone con una scarsa esperienza politica e faranno una brutta figura».
Il cardinale in attesa di accedere al soglio, «l’altro», ovvero Napolitano stesso, appare in Aula per primo, con il suo portamento vagamente regale, l’incarnato perfettamente asciugato dal tempo, la montatura tonda, l’ovale serio. Conosce troppo bene la Camera, che ha presieduto in un decisivo momento di transizione dal 1992 al 1994, per cadere nelle trappole della sovraesposizione e del logoramento. E quindi subito dopo il voto passa nel suo ufficio del Senato, per seguire la diretta dal piccolo schermo del canale parlamentare, poi a casa, dove è il figlio Giulio a opporre un cortesissimo «filtro» al citofono, e a fargli compagnia insieme alla moglie Clio. A quella stessa ora D’Alema è a via Nazionale, nel suo ufficio del Botteghino: vicinissimi e distanti, duellanti paralleli e felpati.
Così, assenti per buona parte dello scrutinio, legati da una galateo di rispetto reciproco apparentemente infrangibile, ma innegabilmente concorrenziale, lo spettro di Massimo D’Alema e quello di Giorgio Napolitano si rincorrono l’un l’altro per tutto il giorno in Transatlantico. Se non altro perché tutti i deputati della coalizione restano nel mistero, combattuti tra due interrogativi. Il primo: se non è un gioco concordato chi ha fregato chi, fra i due compagni di partito? Il secondo: ma se Napolitano è il candidato ufficiale, un candidato che dalla quarta votazione potrà disporre anche di una maggioranza autonoma - alla fine - come è possibile che salti fuori D’Alema?
Sembra che anche il Parlamento italiano sia dominato dal dilemma che insegue il personaggio più brillante e controverso della Quercia, quello di essere considerato sempre troppo o troppo poco. L’uomo delle grandi strategie, l’architetto delle più grandi costruzioni, il progettista geniale che però non riesce a concludere nessuno dei suoi disegni: né la Bicamerale, né la premiership, né la presidenza della Camera, e ora nemmeno il Colle. Sempre brillantemente quasi, mai compiuto, magari mediocremente ma compiuto.
Il vero dato di fatto è che partito come outsider, Napolitano ha preso nelle ore di ieri quota e credibilità: nessuno pensa che si possa indurlo a ritirarsi, né che lui abbia intenzione di farlo. E la prova migliore è nelle facce dei due uomini che in modo diverso gli sono più legati. Il primo, Emanuele Macaluso, storico compagno di mille battaglie, grande vecchio della sinistra socialdemocratica e riformista ha scritto il suo editoriale, abbottonandosi in una nube di cortese, e semi-istituzionale riserbo. Però, alla fine, non nasconde la sua trepidazione: «Ho scritto perché secondo me Napolitano è un ottimo possibile presidente, il migliore possibile. È un garantista vero di cui nessuno dovrà aver paura, o timore, uno che farà osservare le regole». Ha scritto di Napolitano, non di D’Alema, e anche questo è un fatto lapalissiano ma decisivo: «Il candidato - dice serissimo - è Napolitano. Quindi parliamo di lui».
Insomma, nei capannelli dei deputati, soprattutto quelli diessini, ci si chiede se D’Alema non abbia sbagliato la mossa, mettendo in campo uno che si è rivelato più coriaceo del previsto. Marco Minniti, da sempre fedelissimo del presidente dei Ds dà un’altra lettura: «Io direi che Napolitano è già presidente al 70%. Massimo, che ha contribuito a questa candidatura lo sapeva benissimo. E poi una cosa è indubitabile: dopo che si è detto a Napolitano di stare in campo per tre scrutinii, non si può certo chiedergli di tirarsi indietro al quarto...».
Già il nodo è quello. Così le malelingue suggeriscono che qualcuno, al Botteghino, fosse convinto che Napolitano sarebbe stato impallinato dalla Casa delle libertà e abbia sbagliato i conti, se non altro perché - voto a parte - il padre spirituale del riformismo italiano ha raccolto dichiarazioni lusinghiere e possibilità di apertura di An e Udc. Anche perché - chiunque avesse commesso questo errore di valutazione - non c’è dubbio che il primo a ritrovarsi con un problema fra capo e collo sarebbe Piero Fassino. Infatti a quel punto, dopo due sconfitte a D’Alema resterebbe solo il tris della carta di riserva: vicepremier, ministro degli Esteri e capodelegazione della Quercia.

E in quel caso Fassino resterebbe «confinato» al Botteghino senza possibilità di ingresso al governo, per un diktat posto dallo stesso D’Alema. A ben vedere ci sono tre vite appese a un filo, quando domani, la nube di schede bianche si diraderà, e uno dei due «fantasmi» di ieri si reincarnerà sul Colle.

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