Arturo Diaconale
La stampa italiana non sarà mai come quella inglese. Ma dovrebbe comunque aprire una discussione su come i media della Gran Bretagna hanno reagito ai sanguinosi attentati di Londra dei terroristi islamici. I giornalisti più liberi e autonomi del mondo, quelli che sulla stampa scandalistica non esitano a mettere in piazza tutte le vicende più intime della famiglia reale e quelli che sulla stampa più seria non esitano a sfidare il potere politico e quello economico con le proprie analisi e inchieste, hanno reagito alla strage con incredibile compostezza. Non una sola immagine di panico, di orrore o di semplice disperazione è apparsa sulle televisioni e sui giornali. Non un segno di agitazione è filtrata dai sotterranei sconvolti della metropolitana londinese. Non una dimostrazione di paura, che pure sarebbe stata fin troppo comprensibile e legittima, è stata riportata nei resoconti scritti e filmati della tragedia.
Qualcuno ha ipotizzato che questo incredibile comportamento sia stato il frutto della applicazione immediata e precisa di una ben meditata strategia antiterrorismo predisposta da tempo dalle diverse istituzioni di Sua Maestà. Dal governo ai servizi di sicurezza, da Scotland Yard alla amministrazione comunale di Londra. L'ipotesi è credibile. Ma solo in parte minima. È sicuramente immaginabile che i servizi di sicurezza e gli esperti di antiterrorismo inglesi abbiano da tempo compreso che i terroristi puntano ad ottenere il massimo effetto mediatico dalle loro azioni. E abbiano elaborato da tempo un piano operativo per ridurre al minimo questo effetto scoraggiando così il ripetere di operazioni che rendono meno di quanto auspicato. Si può dare per scontato, ad esempio, che l'isolamento da parte della polizia delle zone cittadine teatro degli attentati sia stata la conseguenza più immediata della strategia per ridurre gli effetti mediatici delle azioni terroristiche. Così come si può legittimamente immaginare che il lungo black-out nelle telecomunicazioni seguito alle esplosioni non sia stato occasionale ma sia dipeso proprio dal progetto antiterrorismo approntato dalle autorità inglesi. Ma l'ipotesi si ferma qui. Non si può andare oltre nell'immaginare un piano di contenimento degli effetti comunicazionali degli attentati. Anche perché è difficile immaginare che questo ipotetico piano sia stato mai discusso e concordato con gli editori e i direttori dei media inglesi. E non è neppure concepibile pensare che se mai unoperazione del genere fosse stata mai fatta non fossero filtrate notizie in proposito o non fossero spuntate voci di dissenso. Se, dunque, le televisioni ed i giornali non hanno riportato, come è avvenuto dopo l'11 settembre a New York o dopo gli attentati di Madrid, scene di corpi scempiati, di terrore diffuso, di fughe disperate o di rabbia incontrollata, non è perché queste immagini non ci siano state. Basti pensare alle centinaia di testimoni presenti provvisti di telefonini con cellula fotografica. La sordina sugli attentati e l'impressione complessiva di grande determinazione ed autocontrollo della popolazione inglese sono state il frutto di un fenomeno diverso. Di una sorta di tacita ed istintiva intesa dei media inglesi di ogni tipo e collocazione. Non per compiere un atto di autocensura ma per fornire una risposta collettiva alla sanguinosa aggressione dei terroristi. In nome del principio che ha reso grande la Gran Bretagna: «Giusto o sbagliato, questo è il mio Paese».
I giornalisti italiani saprebbero fare altrettanto? Mi piacerebbe se il segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi sollevasse l'interrogativo. L'auspicio è che non avvenga mai. Ma anche noi potremmo essere chiamati a dare una prova di carattere nazionale.
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