Dassoucy, l'uomo che si burlò di tutto

Il poeta e musicista francese fu un divo rock e anticonformista con secoli d'anticipo

Dassoucy, l'uomo che si burlò di tutto

Se un francesista rilevante come Giovanni Macchia lo annoverava fra i libri più divertenti che avesse mai letto, nominandolo «il più avventuroso romanzo del Seicento», non poteva passare inosservata la riedizione di Le avventure burlesche del signor Dassoucy (Luni Editrice, pagg. 320, euro 24, introduzione, traduzione e note di Barbara Piqué, traduzione dei versi di Alessio Colarizi Graziani).

Parigino, classe 1605, Charles Coypeau Dassoucy ebbe una vita, in effetti, alquanto avventurosa. Fuggito presto di casa, anche per sottrarsi all'autorità del padre, un avvocato di origine cremonese, dotato di buona educazione e di talento, sapeva suonare il liuto e comporre musica e versi. Si unì al gruppo di atei libertini che si rifacevano alla filosofia di Gassendi (fra essi, Cyrano de Bergerac), ma soprattutto si fece largo come musicista alla corte dei reali francesi e dei Savoia, muovendosi fra Francia e Italia. Poco resta della sua pur copiosa produzione musicale, molto più della sua vita che, come si è detto, fu piuttosto movimentata. Il che era dovuto in gran parte alle sue relazioni problematiche con il potere ecclesiale, essendo lui, come oggi si direbbe, gay, ma anche pedofilo, visto che il suo paggio e protetto era un ragazzo di soli 13 anni, Pierre Valentin, detto Pierrotin, straordinaria voce bianca e, a quanto traspare dal racconto, ladro, alcolista cronico, aspirante omicida.

Le avventure di Dassoucy sono divertenti perché sono scritte nello stile letterario noto come burlesco (il maggior rappresentante in Francia in quel periodo era Paul Scarron), e soprattutto perché sono scritte benissimo, in uno stile satirico, scoppiettante, grottesco, pieno di doppi sensi e di riferimenti utili ad aggirare la censura. L'eccellente lavoro esegetico e filologico dei traduttori quello stile lo valorizza.

Il musicista e poeta era un uomo che godeva di agganci notevoli, fra monarchi e artisti di alto livello (fra tutti, Molière, alla cui compagnia si unì per alcuni mesi, e per il quale scrisse e progettò musiche che oggi si chiamerebbero colonne sonore). Sta in questo la straordinaria freschezza del testo: nella consapevolezza che arte e vita si inseguono, ma raramente coincidono. Ovviamente non possiamo prendere per oro colato l'autobiografia di Dassoucy; troppi alti e bassi, troppi rovesci di fortuna, troppe cadute in disgrazia a seguito di perdite al gioco o di furti e rapine. Difficile pensare che fosse così ingenuo. Ma certo, dissoluto lo era. E anche straordinario nel farsi dei nemici, vuoi per l'invidia, vuoi per il risentimento di costoro. Lui appare però come uno che preferisce perdere un amico che una battuta. E a 72 anni, quando le sue memorie si interrompono per il sopraggiunto decesso, trovata una decorosa pensione a carico del Re Sole, può permettersi di dire quasi tutto.

Illuminanti le parti in cui analizza il proprio stile poetico, quello di una satira non moraleggiante, che ai suoi detrattori appariva come semplicistico, e che invece non lo è affatto: «È molto facile fare ridere un facchino che ride di tutto, ma è difficilissimo smuovere uno stoico stitico che non ride di nulla», sostiene. La stessa differenza che passa oggi fra un cabarettista da tormentone e un attore-autore comico. «Per riuscirvi non basta avere dello spirito come tutti, bisogna essere dotati di un genio particolarissimo». E in effetti la vis comica dei suoi versi è data dall'accostamento contrastante con lo stile eroico, rappresentandone spesso la parodia. Il suo è un racconto che, se fossimo in Spagna, potremmo chiamare picaresco. L'eroe (lui stesso), è un antieroe che non manca di coprirsi di ridicolo, come nella scena in cui, suonando davanti a Cristina di Savoia, si pente di aver condotto con sé un Pierrotin raffreddato e miagolante, e si scompone al punto da colpire involontariamente una gran dama alla testa con il manico del liuto, passando in un attimo da artista blasonato a buffone. E così è tutto l'andamento delle sue peripezie.

Manca l'ultima parte della sua vita. Tempi e circostanze che fatichiamo a immaginare, basti dire che Pierrotin, rapito dai Gonzaga, è portato a Mantova e castrato per farne una voce bianca. Seguono i vari tentativi di liberarlo e poi il trasferimento a Roma, dove il libertino sodomita e anticlericale viene incarcerato dal Sant'Uffizio e costretto ad abiurare.

Lucida e spassosissima la sua carrellata finale di sedicenti poeti incontrati qua e là, tanto entusiasti quanto senza talento, i quali «si arrampicano su per il Parnaso senza la licenza di Apollo», dallo speziale che fallisce e bastona la moglie, secondo lui ostacolo alla sua gloria, al fornaio pasticciere che si rovina facendo credito a tutti gli artisti che gli danno retta e lo elogiano, fino al curato di

campagna, adulato per finta e da tutti sbeffeggiato a sua insaputa, il quale sacrifica la salute per la cattiva poesia, tutte incarnazioni del «destino dei pazzi quando diventano poeti e dei poeti quando diventano pazzi».

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