De Mauro, Riina mandante improbabile

Dietro l’inchiesta del giornalista sul caso Mattei si nascondevano in realtà rivelazioni sui retroscena del presunto golpe Borghese

De Mauro, Riina mandante improbabile

LINO JANNUZZI «La sera del 16 settembre 1970 lo scirocco correva a 65 all’ora e il termometro aveva sfiorato i 30. È buio in via delle Magnolie, dove la strada è dissestata e l’illuminazione manca. Curvo allo sportello della sua Bmw, 49 anni, alto, bruno e claudicante, l’uomo sta prendendo dal sedile anteriore il caffè, il vino, le sigarette. Sua figlia rincasa col fidanzato, lo vede, va avanti e apre l’ascensore. Attende, non lo vede, ripercorre i pochi passi dell’atrio, sulla strada qualcuno dice “Andiamo” oppure “Non scherziamo”, lei vede la Bmw che riparte saltando; con suo padre due uomini a bordo, forse tre, filano via. Sono le 21,20, è scomparso il giornalista Mauro De Mauro»: così la racconterà la sua collega giornalista de L’Ora di Palermo, Giuliana Saladino.
Mauro De Mauro era stato repubblichino, prima con le Ss italiane a fianco di Kappler, poi con la X Mas di Junio Valerio Borghese, il principe nero. Accusato di essere implicato anche nel massacro delle Ardeatine fu imprigionato, processato e assolto per insufficienza di prove. Dopo il processo scomparve per un lungo periodo e ricomparve a Palermo come giornalista all’Ora, il quotidiano del pomeriggio vicino al Pci. Cronista di punta, esperto di mafia, sparì per sempre, e nemmeno è stato ritrovato il cadavere (solo ritrovarono la Bmw, abbandonata poco lontano da casa, con le chiavi nel cruscotto). Indagarono su tutto, dalla droga alle esattorie dei cugini Salvo, all’Eni di Enrico Mattei, perché De Mauro era stato incaricato dal regista Francesco Rosi, che stava preparando il film sulla morte di Mattei, di ricostruire le ultime giornate passate in Sicilia dal presidente dell’Eni, precipitato con il suo aereo. Si presumeva che De Mauro avesse scoperto qualcosa, parlava di uno scoop, «un’inchiesta che farà tremare l’Italia».
Qualche tempo fa, un magistrato di Pavia aveva riaperto le indagini sul caso Mattei rilanciando la tesi dell’attentato, aveva incriminato il contadino che aveva visto precipitare l’aereo e aveva mandato le carte alla Procura di Palermo. E la Procura di Palermo ci fa sapere ora, dopo 35 anni, che il giornalista è stato sequestrato, strangolato e seppellito per ordine del triumvirato che all’epoca reggeva Cosa Nostra (Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Totò Riina) e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio di Totò Riina, unico superstite dei tre. Siamo in Sicilia, in Sicilia c’è la mafia, il cronista si occupa di mafia, non può che averlo fatto sparire la mafia, e non si può che processare l’unico capomafia ancora in vita: non è elementare? Tanto elementare, che ci sono voluti 35 anni per arrivarci.
La tesi della Procura è che De Mauro avesse scoperto i legami della mafia con il fallito tentativo di golpe del principe Borghese nella notte dell’Immacolata del 1970, due mesi dopo la scomparsa del giornalista, ma che non ebbe mai luogo. È possibile? Che De Mauro abbia potuto ricevere confidenze da qualche ex camerata della X Mas, sul progettato golpe, potrebbe anche essere possibile (benché poco probabile che l’ex camerata si confidasse con il cronista di un giornale vicino al Pci e che notoriamente votava comunista). E può persino darsi che quello stesso ex camerata abbia pensato bene di sopprimere il cronista che minacciava di rivelare tutto. Ma perché sarebbe intervenuta la mafia? Perché la mafia avrebbe temuto rivelazioni sui progetti golpisti di Borghese? La mafia era veramente implicata nel tentato golpe?
Su questo punto fanno testo i verbali del maxiprocesso voluto e imbastito da Giovanni Falcone. È Luciano Liggio, che è tra gli imputati ma che verrà assolto, a raccontare nell’aula bunker dell’Ucciardone: «Dopo la mia scarcerazione, avvenuta alla fine del 1969, nella primavera inoltrata del '70 è venuto a trovarmi a Catania Tommaso Buscetta, che faceva da autista a Salvatore Greco, detto “Cicchiteddu”, il quale mi voleva fare delle proposte, perché erano interessati a un colpo di stato in Italia, un golpe militare. Si voleva da parte dei militari la mia presenza per accettare eventuali accordi... mi dissuadevano dal tener conto delle imputazioni, non dovevo avere paura dell’ergastolo, avrei avuto il cartellino pulito, purché avvallassi e mi impegnassi... Luciano, tu hai il processo in corso, noi ti possiamo garantire la libertà. Volevano arruolare 6mila-8mila persone. L’impegno era che si creasse un clima che giustificasse il colpo di stato: disordini, ordine pubblico squassato. Io dovevo essere la testa di legno materialmente, che doveva avere rapporti con chi disponeva gli attentati da fare; ma Luciano Liggio non accetta, non si piega a nessun ricatto, né con la promessa di libertà, né col denaro, né con niente. Ho rifiutato tutto, non me la sono sentita di avvallare la possibilità di portare il Paese in un regime totalitario».
Tutte le indagini hanno confermato la deposizione di Liggio. Effettivamente gli emissari del principe avevano cercato di stringere accordi con la mafia, coinvolgerla nel complotto, indurla a organizzare attentati e disordini, ma non erano riusciti nemmeno ad avere contatti con i capi che contavano. I golpisti si erano rivolti a Salvatore Greco «Cicchiteddu», l’ex coordinatore della prima commissione di Cosa Nostra che all’epoca è già latitante e vive in Venezuela da sette anni ed è ormai privo di qualsiasi autorità nella gerarchia mafiosa, e al suo «autista», Tommaso Buscetta, che allora è stato persino «posato», cioè sospeso dall’organizzazione. Sono Cicchiteddu e Buscetta che rientrano clandestinamente in Italia e cercano di convincere Liggio a partecipare all’avventura del principe. All’epoca Liggio è nel triumvirato che regge temporaneamente Cosa Nostra, assieme a Bontate e Badalamenti, ma è in polemica con gli altri due, non partecipa alle riunioni e si fa sostituire dal suo fedele luogotenente, all’epoca Totò Riina: e dovrebbe essere ora proprio Totò Riina, che non può che aver eseguito gli ordini di Liggio e il suo rifiuto di avvallare gli accordi con gli aspiranti golpisti, a rispondere dell’omicidio di De Mauro.

E che mai poteva importare a Riina delle presunte rivelazioni minacciate da De Mauro (ammesso che De Mauro avesse saputo del progettato golpe e intendesse denunciarlo)? Semmai Liggio e il suo luogotenente Riina potevano essere interessati al contrario: che De Mauro raccontasse pure, e facesse sapere anche che la mafia aveva rifiutato di essere della partita. Tutto da guadagnare.
Ma i magistrati della Procura di Palermo, che si vantano di essere la «memoria storica» della mafia, forse non si ricordano più né di Liggio, né del maxiprocesso di Giovanni Falcone.

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