Nel 2020 il buco dei conti pubblici sarà di poco inferiore all'11% del Pil, in tutto più o meno 200 miliardi di euro.
Se tutto andrà bene, però. Perché di fronte alle stime del governo contenute nella cosiddetta Nadef (è il documento che anticipa i principali dati di bilancio per i prossimi anni) ci sono le previsioni del Fondo monetario, che ipotizza un deficit al 13%. Senza parlare dell'eventualità di un secondo lockdown totale, che complicherebbe ancora di più le cose.
Comunque sia, dicono gli economisti, era la cosa giusta da fare di fronte all'emergenza Covid e alla paralisi dell'economia. La cosa giusta anche a costo di riportare le lancette della finanza pubblica al 1985. In quell'anno, il presidente del Consiglio era Bettino Craxi, il ministro delle Finanze Bruno Visentini, fu stabilito un record che prima del Covid sembrava imbattibile: il deficit annuale più alto dall'Unità di Italia, con l'eccezione dei giorni cupi delle due guerre mondiali. Quasi il 12% del Prodotto interno lordo (11,8 per la precisione). Non che il 1985 fosse un'eccezione, anzi. Se si guarda il periodo tra il 1981 e il 1991, il deficit dello Stato non scese mai sotto il 9,66%, la media annua fu pari al 10,7%. Altro che 3% di Maastricht.
TEMPESTA PERFETTA
A pesare sui conti di tutti quegli anni non furono guerre né pandemie, piuttosto una tempesta perfetta, un corto circuito micidiale tra politica disfunzionale e contesto economico infelice. Così sasso dopo sasso, anno dopo anno, è nata una montagna. E il risultato di tanta prodigalità è il Moloch con cui ancora oggi dobbiamo fare i conti, il debito pubblico che in buona misura si formò proprio in quegli anni, passando dal 55% del 1980 al 113% del 1992.
Un bel regalo a chi è venuto dopo, non c'è che dire. Guardare a quel periodo offre, però, anche la possibilità di sottolineare le differenze (spesso a favore dell'Italia post-Covid) tra il deficit di ieri e quello di oggi. La prima diversità è che gli italiani, e con loro il bilancio dello Stato, si sono ormai abituati a rimanere a stecchetto. Nonostante la fama che qualcuno all'estero continua ad attribuirci, siamo diventati da tempo formichine giudiziose più che sventate cicale (naturalmente con l'eccezione dei mesi del Covid).
La misura economica della virtù collettiva è il cosiddetto disavanzo primario, che indica le uscite dello Stato meno le entrate, non tenendo conto della spesa per interessi. Per tutti gli anni Settanta e gli anni Ottanta questa voce è stata pesantemente negativa, con due record nel 1975 e nel 1981, rispettivamente -7 e -5,5%. Anche non tenendo conto della necessità di ripagare i debiti lo Stato italiano per oltre 20 anni ha sempre speso più di quello che incassava. Dal 1992 in poi, vale a dire da quasi 30 anni, questo disavanzo è diventato un avanzo, e cioè ha sempre il segno positivo. Ben pochi Paesi europei possono dire lo stesso.
Come è stata possibile la svolta? Il fatto è che visti con gli occhi «risparmiosi» di oggi i due decenni della grande spesa sembrano una galleria degli orrori contabile. Basta fare un solo esempio, quello delle pensioni. L'introduzione degli assegni baby è del 1973; nel 1976 la cosiddetta «minima» viene rivalutata in base alle retribuzioni dell'industria agganciate all'inflazione; gli assegni di invalidità esplodono. Le conseguenze si notano subito: il saldo tra entrate e uscite dell'Inps passa da -4,8 miliardi del 1981 a -18,4 del 1991 (le somme sono espresse in euro del 2015). Ma baby pensioni e assegni di invalidità o altre forme di assistenza non dichiarata, scrivono Francesco Silva e Augusto Ninni («Un miracolo non basta», pubblicato da Donzelli) «non sono altro che trasferimenti di reddito con evidenti contenuti clientelari a favore di non-occupati, spiegabili come risposta al basso livello di occupazione. La debolezza del mercato del lavoro genera trasferimento di reddito anomali governati dallo Stato».
Si potrebbe continuare a lungo, ma forse val la pena di ricordare solo un'altra novità di quegli anni: l'entrata a regime delle Regioni, che introdusse un ulteriore livello di spesa. In molti casi si finì per duplicare semplicemente i centri di costo, con un'amministrazione centrale che pur alleggerita di alcune funzioni non fece segnare alcun risparmio.
IL DENARO COSTA
L'altra fondamentale differenza tra i conti pubblici di oggi e quelli di allora è il livello dei tassi di interesse. Il disastro dei conti pubblici italiani negli Anni 80 nasce in buona misura dalla battaglia anti-inflazione ingaggiata all'inizio del decennio da Ronald Reagan e dal governatore della Fed Paul Volcker. Per tenere a freno i prezzi Volcker raddoppia in pochi mesi i tassi fino al 19%. L'Italia, ha una sua moneta ma il sovranismo monetario non si traduce nella meccanica possibilità di stabilire i tassi a proprio piacimento. Al contrario.
Lo Stato ha bisogno di attirare capitali per finanziare il deficit, l'inflazione impazza (nel 1982 l'aumento dei prezzi è quasi del 17%, anche se il record è del 1974 con il 24,5), la perdita di valore della lira è costante. Non resta che seguire a ruota l'esempio degli Usa e degli altri Paesi più virtuosi. I rendimenti dei titoli di Stato si impennano. La conseguenza: tra gli Anni 80 e i primi anni 90 il nostro Paese deve impiegare anche il 20% delle sue entrate fiscali solo per pagare gli interessi sul debito. Il picco si avrà nel 1995, quando gli interessi «mangeranno» il 30% di quanto incassato dal Fisco. Nel 2019 la cifra corrispondente è stata del 7,2%. Indebitarsi costa molto meno che una volta e lo Stato ha aumentato le sue entrate fiscali (troppo, per unanime riconoscimento). La tendenza si è rinforzata in era di Covid trionfante e di semi-infarto dell'economia mondiale: i rendimenti hanno subito un calo ulteriore. Per la prima volta, la scorsa settimana il Btp a tre anni è finito sotto zero: i titoli con scadenza nel 2024, sono stati venduti ai risparmiatori al tasso di -0,14%. Non era mai successo.
In campo è sceso il compratore con le spalle più larghe che ci siano: la Banca centrale europea. Per questo piazzare i titoli di Stato italiani, compresi quelli per le centinaia di miliardi di deficit aggiuntivo, è un gioco da ragazzi. Il Fatto quotidiano ha calcolato che nei prossimi due anni il fabbisogno dell'Italia sarà di 340 miliardi da finanziare con titoli di Stato. Quasi tutti, circa 270, saranno a carico della Bce che ha messo in pista il cosiddetto Pepp, Programma di acquisto per l'emergenza pandemica. Sottraendo al conto anche quelli che arriveranno dai diversi piani di sostegno europei rimarranno da collocare presso gli investitori una cinquantina di miliardi in due anni. Viste le grandezze in ballo, una miseria o quasi.
OMBRELLO APERTO
Tutto a posto, dunque? In realtà, ovviamente, no. Rispetto agli anni Ottanta sono migliorate le condizioni complessive di finanziamento ma è aumentata anche, e di molto, la quantità assoluta del debito da finanziare. Da una percentuale pari al 113/120% rispetto al Pil degli anni Novanta si arriverà, secondo il già citato Nadef, al 158% di quest'anno, destinato a scendere al 156% dell'anno prossimo. Sempre ammesso che non abbia ragione il Fondo Monetario che dice che il debito di quest'anno sfiorerà quota 162% del prodotto interno, scendendo al 158 solo l'anno prossimo.
In una situazione del genere porsi qualche dubbio sulla sostenibilità del debito che grava sulle spalle degli italiani è più che naturale.
Se il Pil, dopo la botta subita quest'anno riprenderà più o meno normalmente la sua andatura, e il deficit tornerà a un «fisiologico» 3%, ha scritto Francesco Daveri, docente di Macroeconomia alla Bocconi, ci sarà un po' di debito in più ma nessun «effetto avvitamento». Ma se la Bce chiuderà prima del tempo il suo ombrello protettivo o se l'Italia finirà con lo sprecare l'occasione, e i miliardi, del Recovery Plan, allora sì, saranno davvero guai seri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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