«Mamma mi stanno impiccando, mi portano alla forca, fate qualcosa, aiutatemi». Alle sei di mattina di venerdì, la madre e il padre di Delara ascoltano increduli la telefonata che li ha ridestati e trascinati nell’incubo. È l’ultima, estrema richiesta d’aiuto della loro bimba, ma loro stentano a crederci. Il 17 aprile l’ayatollah Mahmoud Hashemi Shahrudi, il capo del potere giudiziario di Teheran, ha regalato due mesi di speranza, due mesi per rivedere la condanna all’impiccagione. Non fanno in tempo a dirselo. L’urlo disperato di Delara riecheggia lontano.
Al suo posto ora c’è la voce di un funzionario indifferente, incaricato di cancellare l’ultima estrema illusione. «La stiamo impiccando, non potete farci niente». Pochi minuti dopo Delara Darabi, la minorenne assassina, la pittrice ravveduta, penzola dalla forca, simboleggia l’irremovibile, irreversibile brutalità di un sistema impietoso. Quell’ultima telefonata concessale mentre il boia già annodava il cappio è lo scampolo più atroce, più osceno, della triste storia di Delara Darabi. Più disumano del gesto del figlio della sua vittima, dell’uomo arrivato sul patibolo per passarle il nodo al collo ed ottenere il risarcimento di sangue previsto dal codice islamico iraniano. Se il taglione è sacra legge della Repubblica Islamica, l’atroce telefonata dal patibolo suona come l’estrema tenue resipiscenza dei carnefici di fronte ad una sentenza che non doveva essere eseguita. Una sentenza portata a compimento contro la volontà del potere giudiziario ed eseguita senza l’obbligatorio preavviso di 48 ore all’avvocato della 22enne Delara Darabi.
L’impiccagione della giovane pittrice sembra, insomma, l’ennesima concessione alla ragion di Stato dell’ala più dura del regime, la risposta dell’ala più oltranzista ad un rinvio che non s’era da fare. La cinica chiusura di un caso ormai famoso in tutto il mondo suona anche come l’ennesimo segnale all’America di Obama, l’ultimo niet dei duri e puri a trattative e concessioni. In Iran, del resto, solo l’avallo di esponenti molto in alto nella gerarchia del potere può spingere le autorità del dimenticato carcere di Rasht, nel nord del Paese, ad ignorare la decisione dell’ayatollah Shahrudi. Quell’esecuzione sbattuta in faccia al mondo che già sperava in un atto di clemenza è anche l’ennesimo segnale d’indifferenza per la sorte di altri 130 giovani condannati a morte come Delara, per delitti commessi prima del diciottesimo anno d’età.
La tragedia di Delara inizia cinque anni fa, quando lei e il fidanzato vengono ritrovati nell’abitazione di una ricca cugina paterna appena assassinata. In un angolo c’è il cadavere della padrona scannata a coltellate, in un altro ci sono quei due ragazzini frastornati con le mani sporche di sangue. Il primo a non farsi domande e a consegnare Delara alla polizia è suo padre. Lei del resto non fa nulla per discolparsi. Ammette ogni colpa, confessa l’accoltellamento, scagiona il fidanzato, garantendogli così una condanna a soli dieci anni di carcere. Poi però ritira la confessione, ritratta tutto. Dalla cella dove passa il tempo dipingendo racconta di essersi auto accusata nella convinzione di non poter venir condannata perché troppo giovane. La scena del delitto sembra darle ragione. Chi ha pugnalato la cugina del padre impugnava la lama con la mano destra. Delara invece è mancina dalla nascita, così mancina - ripete sempre la madre - da non riuscire a usare la destra neppure per raccogliersi i capelli. Proprio in base a questa evidenza ignorata dai giudici l’ayatollah Hashemi Shahrudi le concede quella sospensione della sentenza che fa sperare il mondo.
Ora è tutto finito e la famiglia è sprofondata nell’abisso della disperazione.
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