Il dialetto non va in Tv, la rivolta degli spettatori

I mass-media snobbano l’idioma locale. Ma, sebbene venga parlato sempre meno, la gente sente nostalgia della tradizione

Luciana Caglio

Un ritorno atteso e subito discusso. Alla Televisione della Svizzera italiana, ha preso avvio la serie dei gialli-quiz «Sergio Holmes», poliziesco casereccio che fa capo a un beniamino del pubblico ticinese, Sergio Filippini nelle vesti di un acuto investigatore, degno insomma della quasi omonimia con il personaggio di Conan Doyle. Ma il successo, annunciato, della trasmissione stava innanzi tutto nel fatto che il protagonista, come la maggior parte degli interpreti, avrebbe parlato in dialetto. Una regola, questa volta, non rispettata. Soltanto Filippini sfoggia l'amato linguaggio vernacolare, mentre i suoi compagni di scena si esprimono in italiano: snaturando l'ambiente locale. Da qui le proteste dei telespettatori che si sono sentiti traditi, una volta di più, dalla crescente disattenzione e disaffezione dei mass media nei confronti del dialetto, espressione insostituibile di una ticinesità oggi in pericolo. Del resto, e le statistiche lo confermano, gli stessi abitanti del Cantone ne sono i diretti responsabili. Secondo i dati, pubblicati dall'Osservatorio linguistico della Svizzera italiana, va estinguendosi la categoria dei «monolingui dialettofoni», le persone che usano unicamente il dialetto, ridotta a un'esigua minoranza di anziani. Mentre cala l'impiego del dialetto non solo nei rapporti professionali e sociali, ma anche in quelli familiari. E soprattutto scompaiono le parlate strettamente locali sostituite da un dialetto standard italianizzato, la cosiddetta «koinè» regionale. In altre parole, l'attaccamento al dialetto, smentito nei fatti, resiste idealmente sul piano affettivo, culturale e persino politico. In un Ticino, che nel dopoguerra, aveva subito l'invasione di svizzeri-tedeschi e germanici e, negli ultimi decenni, l'immigrazione di slavi e di turchi, la parlata nostrana è diventata uno strumento di autodifesa, un modo per dire: «Ci siamo ancora». Non sorprendono, quindi, gli sforzi, per certi versi patetici, con cui si cerca di tener viva una tradizione, intaccata dalla nuova realtà sociale e ambientale. Ma non è facile, affidandosi alla nostalgia, tradurre in pratica, questa voglia di dialetto. «C'è il rischio - osserva Dario Robbiani, specialista in comunicazione - di alimentare un folclorismo desueto e di isolarsi nel proprio giardinetto». Per evitarlo è nata, recentemente, l'associazione Tepsi (Teatro e cultura della Svizzera Italiana), che si propone di rilanciare un repertorio dialettale attualizzato, con spettacoli destinati a valicare le frontiere cantonali. Grazie all'accoppiata Yor Milano-Beruschi, questa compagnia ha fatto tappa, con successo, in numerose località della Lombardia. In nome di una comune parlata ticinese-lombarda si sono rinsaldati i rapporti culturali insubrici. Poeti comaschi e milanesi partecipano a concorsi organizzati nel Cantone e poeti ticinesi si affermano oltre confine. Uno zelo in cui, però, non si deve perdere di vista la qualità. «Anche del dialetto si può fare un uso sbagliato», dice Franco Lurà, direttore del Centro di dialettologia ed etnografia, e responsabile del «Lessico dialettale della Svizzera Italiana», «best seller» dello scorso anno: 5mila copie vendute per un'opera in cinque grossi volumi. «Una popolarità inattesa, un segno evidente di attaccamento alla piccola patria».
In un'operazione del genere trova riflesso l'aspetto più serio e credibile della riscoperta del dialetto, oggetto di ricerche da parte di linguisti quali Sandro Bianconi e Ottavio Lurati, autore di studi sull'onomastica e la toponomastica in Ticino e Italia del nord.

In fatto di dialetto, insomma, il Cantone offre un esempio imitabile.
Come osserva Lurà, la lingua popolare non va contrapposta a quella alta: «Bisogna essere un po' camaleonti, esprimersi in dialetto o in italiano a seconda delle situazioni e degli interlocutori».

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