Difendere ora la manovra di risanamento economico da 30 miliardi dagli assalti sindacali e di una parte della maggioranza di sinistra, come fosse la linea del Piave del rigore, non cancella lo «strappo» ormai avvenuto: che cioè il governo ha deciso di arretrare la manovra da 35 miliardi per il 2007, autoconcedendosi uno sconto del 15% alla politica di austerità che aveva annunciato e approvato in Parlamento poco più di un mese fa solo perché il fisco sta incassando un po' di più.
Bisognerà farsene una ragione, naturalmente, ma la delusione cocente intanto resta sia per ciò che è accaduto, sia soprattutto per ciò che accadrà.
Il primo motivo di delusione riguarda la credibilità della politica economica. Poco più di un mese fa, al termine di una verifica contabile, la situazione dei conti pubblici fu giudicata grave, paragonabile a quella tragica del 1992 e coerentemente venne annunciata una manovra ampia e strutturale per il 2007. Di nuovo da allora non è accaduto nulla che non fosse già prevedibile a luglio: la ripresa dell'economia è in atto da marzo, cioè da prima delle elezioni, ed è ovvio che produca entrate fiscali superiori al previsto. L'enfasi che fu data in luglio alla correzione di 35 miliardi ed al fatto che un terzo di quei fondi sarebbero andati ad interventi per far crescere l'economia era piaciuta ai mercati finanziari, come dimostra il risparmio di circa un miliardo di euro atteso dal calo dei tassi manifestatosi all'annuncio di luglio. Tornare indietro ad agosto potrebbe trasformare il risparmio atteso in un costo prevedibile.
Il secondo motivo attiene alla prudenza finanziaria. Il panorama congiunturale internazionale non indica per il futuro bel tempo. Il Dpef sconta anzi un rallentamento dei commerci mondiali che coinvolgerà anche l'economia italiana. Inoltre lo scenario dei tassi di interesse indica una fase di rialzo che comporterà anche un maggior onere per il debito pubblico. Alleggerire la manovra di correzione dei conti di fronte a tali incognite non ci pare prudente.
Il terzo motivo riguarda l'avventatezza politica. Troppo rapido, troppo poco dibattuto ed analizzato è stato l'impatto della maggior attività economica sulla finanza pubblica. Un minimo di saggezza politica in più avrebbe consigliato di guardare avanti, ai numeri di questa maggioranza, alla capacità di tenuta in Parlamento della linea del rigore quando sul ministro dell'Economia si abbatterà il combinato disposto dei «no» dell'opposizione, con i «no» delle frange massimaliste della maggioranza, con i «no» del sindacato, delle lobby, delle corporazioni e di tutti coloro che costituiscono il partito della spesa pubblica. Cedere così facilmente 5 miliardi di euro il 30 agosto, quanti altri cedimenti preannuncia prima del 31 dicembre?
Ma è il quarto motivo quello che desta più perplessità. Il governo ha annunciato che il faro della sua politica economica è la riattivazione della crescita dell'economia e della produttività e che il riordino della finanza pubblica è uno dei presupposti. Da dieci anni il Paese cresce un punto e mezzo meno dei partner europei, e tre punti meno degli Usa. Le cause le conoscono anche all'asilo: minor competitività, contributo negativo dell'export al Pil, produttività totale dei fattori stagnante, contesto poco favorevole alle imprese, scarsa politica di investimento in infrastrutture materiali (grandi opere) e immateriali (riforma della giustizia commerciale, liberalizzazioni, concorrenza), inefficacia dell'azione burocratica della P.A. È su questi obiettivi che il governo avrebbe dovuto concentrare se mai i 5 miliardi che ritiene possano «avanzare», accelerando gli interventi per la ripresa dell'economia, non attenuando i tagli di spesa. Onorare gli impegni di Bruxelles e portare il deficit sotto al 3% nel 2007 è bene, ma non risolve il problema Italia. Riattivare la crescita economica del Paese richiede uno sforzo immane.
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