Difensore d’ufficio

Marco Pannella è ancora una volta in sciopero della fame e della sete per fermare l'impiccagione di Saddam Hussein. Tanto di cappello dico io, e lo stesso diranno molti di voi. Chi non si inchina al proposito di salvare una vita, perseguito con il sacrificio di una persona che mette in gioco la propria salute se non addirittura la propria vita? Eppure sul significato dell'atto di Pannella c'è da riflettere. Il leader radicale non è nuovo in imprese impossibili che sono al centro della sua politica innervata da pulsioni esistenziali. Se le imprese non sono impossibili non meritano attenzione. Se l'obiettivo può essere facilmente perseguito, non ne vale la pena. Se la politica è normalità, deve essere dismessa come routine.
Si direbbe quasi che le grandi sfide che Pannella lancia al mondo sono innanzitutto dirette a se stesso. Da oltre mezzo secolo, con sempre maggiore determinazione, sembra che le drammatiche prove a cui sottopone il suo corpo debbano soprattutto provare che lui, Marco, ce la può fare da solo contro tutto e tutti. Qualcuno si meraviglia che il Partito radicale rimanga cosa modesta, ma è proprio questa la volontà del leader che desidera fortemente che il partito non sia altro che un prolungamento della propria persona.
Le missioni titaniche - vedi la sottrazione di Saddam all'impiccagione - sono vitali per Pannella fintantoché restano impossibili. Se fossero possibili non attirerebbero quei consensi, dalla destra e dalla sinistra, dai realisti e dagli idealisti, dai politicanti e dagli intellettuali, dai buonisti e dai mascalzoni che fanno sentire Marco salvifico protagonista dell'umanità. Anche noi che gli siamo affezionati non riusciamo talvolta a sottrarci alla droga ideale che è la retorica della nonviolenza. Ecco la ragione per cui il suo protagonismo coinvolge schiere di fedeli che alimentano il circolo del carisma.
Negli anni Settanta gli scioperi della fame e della sete si indirizzavano ad obiettivi plausibili come il divorzio e l'aborto. Quando poi iniziarono le missioni tanto esaltanti quanto impossibili, Pannella cominciò a girare a vuoto. Si propose di salvare milioni di bambini che morivano (e muoiono) di fame, ma alla fine non ne venne fuori granché. Con il partito gandhiano transnazionale, dopo avere distrutto il ruolo dei radicali nella politica italiana, ritenne di potere sollevare dalle persecuzioni minoranze religiose, etniche e culturali in Vietnam, Cambogia, Laos, Cina, Malì, Nigeria e Azerbaidjan, ma le azioni, tutte meritorie, somigliarono piuttosto a quelle di una qualsiasi Ong finanziata dalle Nazioni Unite.
Anche all'inizio della crisi irachena Pannella cercò di esercitare il suo protagonismo salvifico con Saddam, tanto da dichiarare ancora oggi che «il tiranno si è pentito di non avere colto l'occasione che lui gli aveva offerto di andare in esilio». Ed ora sta per partire il «grande Satyagraha mondiale per la pace», missione che più impossibile di così non ci può essere, con l'obiettivo di portare la pace nel mondo a cominciare dal conflitto israelo-palestinese. Di fronte a tanto meraviglioso idealismo chi se la sente di non essere con Pannella? E chi osa mettersi contro?
Ma oggi bisogna domandarsi che cosa significhi salvare dall'impiccagione Saddam. Certo, nessuna persona di buon senso può plaudire all'omicidio di Stato. La questione che incombe sul martoriato Paese è tuttavia ben diversa dalla buona volontà internazionale, dalla nonviolenza gandhiana e dalla cultura cristiana della vita. Per la pacificazione dell'Irak è in gioco un problema politico: Saddam è più utile vivo o morto?
Sono in molti a ritenere che la fine del dittatore possa chiudere la stagione del sangue. Tanto più che in tal senso vi è stata la decisione di un tribunale legittimo che ha emesso con coraggio una sentenza secondo le proprie leggi in un Paese che ha bisogno del national building e non delle crociate buoniste. L'Europa non ha diritto di mettere bocca sull'Irak dopo che se ne è lavata le mani. E, nel caso specifico, avrebbe poco senso l'intervento di un tribunale internazionale con le sue astratte norme su crimini commessi nell'ambito di una nazione.

Si tratta forse della giustizia dei vincitori: ma se si vuole un Irak che cammini sulle proprie gambe, occorre che siano gli iracheni, non noialtri grilli parlanti, a stabilire quel che è più o meno opportuno.
m.teodori@mclink.it

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