A digiuno nella corsa al potere Fassino fa indigestione di gaffe

Il segretario del Botteghino svicola sulle difficoltà del governo e nega la vittoria del Polo al Nord. Poi riabilita Berlinguer che definiva un perdente

Luca Telese

da Roma

Piero due, la vendetta. È già oggetto di studio e di culto il nuovo Piero Fassino, quello che dopo aver distrutto la candidatura di Massimo D’Alema alla presidenza della Camera (e al Quirinale), nonché la propria alla vicepremiership, nonché aver trainato il proprio partito al minimo storico (nelle ultime politiche) si spende, in questi giorni in una grande offensiva di immagine per far dimenticare le defaillances di cui sopra ed accreditarsi come possibile leader del futuro partito democratico.
Prendete ad esempio ieri: il segretario dei Ds consegnava a Il Messaggero una esternazione sui primi giorni di governo. Memorabile, come sempre. I ministri litigano sulle competenze? I sottosegretari superano persino i 101 cuccioli del leggendario film Disney? Prodi inciampa nel «folklore» (attribuito a Pdci e Prc che si arrabbiano non poco)? Padoa-Schioppa annuncia lacrime e sangue per recuperare il deficit?
Lui, sintetizza così: «Il governo è partito bene, direi». E digiamolo. La cosa bella di Piero Fassino è che è sempre lo sponsor involontario delle cause che avversa e il detrattore inevitabile di quelle che sostiene. E che è sempre meravigliosamente convinto di quel che dice. Per esempio sui sottosegretari: sono 102, il massimo storico mai raggiunto negli annali della Repubblica. Lui ti spiega che si tratta di una bazzeccola: «Posso dire che si sta facendo un po’ troppa demagogia? Se si divide il numero dei sottosegretari per quello dei ministeri si vedrà che la media sono tre quattro per dicastero». Splendido: anche perché Fassino dimentica che anche i ministeri sono stati aumentati (a 27!). Ma si sa, la matematica è il suo forte. «Da quando sono segretario ho vinto tutte le elezioni», ama ripetere. Infatti ancora si sta riflettendo sulla meravigiosa spiegazione del dato dei Ds alle politiche. Fate attenzione: «Se si fa una proiezione sulla Camera del voto dei Ds al Senato - osserva - valutando che un terzo di quelli che hanno votato Ulivo non avrebbero votato né Ds né Margherita, e applicando la stessa proporzione che c’è al Senato fra i Ds e Margherita, ovvero 68 a 32 voti, al 66% dei voti dell’Ulivo... bene, l’applicazione di questo parametro sul 66% degli elettori, una previsione molto realistica... porta i Ds al 19%. È questa la nostra reale consistenza». Chiaro, no? Altra perla a Il Messaggero: «Dove sarebbe il predominio della destra al Nord? Più esatto sarebbe dire che la destra prevale in alcune zone, importanti, per carità, di Lombardia e Veneto» (peccato che alle politiche al Nord abbia vinto ovunque tranne che in Liguria e nelle regioni autonome!).
Per non parlare dei suoi referenti, ondeggianti come vele al vento, a seconda dell’occorrenza. Ad esempio Enrico Berlinguer, che nel suo indimenticato libro Fassino aveva descritto come un leader in crisi, uno che va a morire a Padova perché non ha più linea. Ebbene, ieri, nell’anniversario della scomparsa, ridiventava improvvisamente statista: «Un uomo che ci ha lasciato un'idea alta e forte della politica, ispirata da valori e dimensione etica». Di più: «Un dirigente politico che con coraggio, lucidità e lungimiranza ha saputo rinnovare la cultura politica della sinistra». Peccato che in Per Passione, a pagina 161 scrivesse: «Mi è capitato più volte di pensare a Berlinguer come un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita... il campione si accorge che con la prossima mossa l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire prima che l’altro muova». Macabro? Certo, ma Piero forse pensava che fosse un passaggio lirico. Il fatto è che Fassino è gaffeur per natura e per vocazione. Memorabile è anche la relazione nella direzione dei Ds da sottosegretario agli Esteri. Preannunciò l’impegno del governo per far cadere Sali Berisha senza sapere che si trovava davanti a una telecamera a circuito chiuso, scatenando un incidente diplomatico di proporzioni tragiche. Ed è rara la sua capacità di straparlare, come ha fatto ieri al congresso di Slow food. Ora: se c’è una cosa di cui Fassino non dovrebbe farsi testimonial è l’associazione dei buongustai dell’Arci, proprio lui che quando va alle feste de l’Unità emiliane viene accolto al grido: «Mangia Piero! Mangia!». Ma a parte questo, è interessante quel che Fassino ha detto ai congressisti: «Slow Food è un movimento democratico che rappresenta uno strumento di controllo sociale, che esalta la capacità degli uomini di controllare i fenomeni che incidono sulla loro vita».

Strumento di controllo sociale? Forse Fassino ha scambiato i discorsi. O forse nel tempo in cui la politica si fa sempre più debole, confida nel potere taumaturgico delle forchette. Per uno come lui è peggio di una nemesi.

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