Disposto a tutti. Per un paio di scarpe aggiustate

Pubblichiamo l’incipit del nuo­vo romanzo di Marco Vichi La vendetta (Guanda, pagg. 202, euro16)

Rocco si grattava la pancia, vicino all’ombelico, si grattava fino a farsi quasi uscire il sangue. Pulci delle più affamate. Abbassò gli occhi e si guardò le scarpe. Chiamale scarpe. C’era più vento là dentro che tra le gambe di una puttana. Tossì forte. Da qualche parte dentro di lui qualcosa stava marcendo, lo sentiva dall’odore che gli saliva in bocca, acido e dolciastro come la pelle dei morti. A volte gli sembrava di aver perso il cervello. Il mondo era diviso in due, in alto la bellezza e in basso l’immondizia. Lui viveva nell’immondizia. E chi vive così alla fine perde il cervello, diventa un’ombra sporca in questa porca vita. Rocco lo sapeva bene, ma che poteva farci. Non sempre si poteva cambiare il proprio destino. Lui a dire il vero lo aveva cambiato, ma in peggio. Secoli fa aveva tutto e adesso non aveva più niente, a parte qualche dente per masticare alla meglio quello che trovava nella spazzatura.
Continuava a grattarsi la pancia, seduto sulla panchina. C’era il sole, alto nel cielo. Quello ancora non costava nulla. Davanti a lui scorreva il fiume, lento e sempre uguale, come la sua vita. Le scarpe. Quali scarpe? Mosse le dita dei piedi. Dita lerce che si agitavano come ragni. Le scarpe, cazzo. Era un pezzo che non rubava un bel paio di scarpe. Per camminare, solo per camminare. Una volta, molti anni prima, le aveva rubate al mercato del martedì, nel parco lungo il fiume. Aveva dovuto farlo. Si era addormentato su una panchina e si era svegliato senza scarpe. Qualche figlio di troia lo aveva fatto fesso. Forse era stato qualcuno più disgraziato di lui, o magari una banda di ragazzini annoiati. Era terribile il senso di nudità che aveva provato alzandosi in piedi senza scarpe. Ma ancora peggio era il freddo. Lo sentiva salire dai piedi su fino alle ginocchia. Rubare le scarpe a lui, che ci viveva sopra... cazzo! Non che fossero granché, gonfie e slabbrate, sudicie da tramortire umani e uccidere insetti, ma erano meglio di niente. Andare in giro a piedi nudi lo riempiva di vergogna. Si era messo a cercare nell’immondizia come un forsennato, sperando di trovare delle scarpe vecchie, ma aveva trovato tutta la merda del mondo tranne un paio di scarpe. Piedi ghiacciati e induriti, in tasca solo cento lire del Vaticano, lucide lucide. Non le aveva mai spese perché erano un ricordo, anche se non sapeva più di cosa.

Vagando per la città con aria desolata era capitato al mercato, e ci si era buttato in mezzo. La gente si apriva al suo passaggio, scandalizzata da quel mostro con i piedi nudi, inaccettabile tra piedi scarpati. Leggeva nei loro sguardi la paura di finire nello stesso modo e la voglia di dimenticare subito quella scena disgustosa. Lui se ne fregava, aveva una missione. Aveva puntato diritto verso una distesa di scarpe in bella vista sopra una bancarella. Cosa aveva fatto di male per non meritarsi nemmeno un paio di scarpe? Scegliere un quarantatrè era stato naturale come respirare. Ci aveva infilato dentro le due mani ed era scattato via correndo come un animale inseguito, battendo con i piedi dei gran colpi secchi sull’asfalto gelato. Aveva deviato la corsa sulla terra fangosa del parco, facendo un rumore di schiaffi. Dietro sentiva urlare e bestemmiare. Lo scarpaio lo aveva rincorso gridando t’ammazzo, come se stesse inseguendo un mostro.

La corsa che aveva fatto per staccarsi dal culo quella bestia gli aveva ridotto i piedi come salsicce.
Dopo qualche ora le dita erano diventate viola, gonfie da fare schifo. Ma finalmente poteva chiuderle in un paio di scarpe.

Per qualche giorno aveva continuato a sentire nelle orecchie le urla disperate del mercante, derubato e fregato nell’onore. Tutto quel puzzo per un paio di scarpe! Cosa avrebbe dovuto fare, lui? Vivere a piedi nudi per il resto della vita? Era novembre, porca di una...

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