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Divertono i "Moschettieri del Re" all'italiana

Dialoghi curati, attori in parte e tempi comici perfetti rendono il nuovo film di Veronesi uno spasso, nonostante una trama sfilacciata e appesantita da lungaggini

Divertono i "Moschettieri del Re" all'italiana

Giovanni Veronesi firma il suo miglior film da molti anni a questa parte, "I moschettieri del re - La penultima missione", una commedia in costume non priva di difetti ma coraggiosa, forte di un budget ingente e di un'ambizione insolita nel panorama delle pellicole italiane dello stesso genere.
Il film, ispirato vagamente a "Vent'anni dopo", secondo romanzo della trilogia di Dumas,
nasce dalle ceneri di un progetto non andato a buon fine negli Anni 80, quando il regista avrebbe voluto coinvolgere nel ruolo di protagonisti Massimo Troisi, Roberto Benigni, Francesco Nuti e Carlo Verdone.
La storia vede i quattro moschettieri, inattivi da trent'anni, richiamati in servizio dalla regina Anna (Margherita Buy), al fine di contrastare l’azione del cardinale Mazzarino (Alessandro Haber) contro gli Ugonotti. I valenti servitori di un tempo, però, ora sono a dir poco acciaccati: D'Artagnan (Pierfrancesco Favino) si è ridotto ad allevare maiali, Athos (Rocco Papaleo) è un libertino malato di sifilide, Aramis (Sergio Rubini) si è fatto abate per sfuggire ai creditori e, infine, Porthos (Valerio Mastandrea), che ha perso moltissimi chili, è un triste relitto col vizio del bere.
Le atmosfere sono quelle de "Il mio west", opera molto meno riuscita che Veronesi, ormai vent'anni fa, aveva costruito attorno a un inadatto Pieraccioni e a due icone come David Bowie e Harvey Keitel.
Numerosi i riferimenti ai film di cappa e spada e ad altre pellicole, dalla monicelliana Armata Brancaleone a "Non ci resta che piangere", da "007" a "La notte di San Lorenzo".
La squadra odierna di attori è il punto forte: i quattro al centro della scena sono spassosi e affiatati tra loro, così come appaiono molto centrati i personaggi minori, dall'ancella maliziosa col volto della brava Matilde Gioli al servo muto con le fattezze di Lele Vannoli.
Proprio come la canzone di Celentano prestata al girato, “Prisencolinensinainciusol”, il segreto di "I moschettieri del re" sembra essere la libertà e la casualità con cui unisce volutamente ingredienti disparati. Il tono oscilla tra il goliardico e il nostalgico, le situazioni farsesche si mischiano ai colori delle location lucane e lo spirito dissacrante compare fin dal sottotitolo, che sembra intendere la volontà di un seguito. Dialoghi pieni di giochi di parole e dalla comicità a orologeria vanno a segno dall'inizio alla fine. Purtroppo la scrittura puntuale delle interazioni verbali perde colpi quando si tratta di narrazione in senso lato: le scene d'azione sono prolisse e ripetitive, ci sono punti morti nella trama e avrebbe giovato un accurato lavoro di limatura in fase di montaggio. Il fatto che Porthos parli romano, Aramis barese e l'esilarante Favino con accento francese e in maniera sgrammaticata, è giustificato nel finale.

La conclusione, a dire il vero, appare un po' posticcia: spiega molte cose e ammanta il film di riferimenti all'attualità ma ne depotenzia l'atmosfera scanzonata.
"I moschettieri del re", in definitiva, è un film riuscito, piacevole e divertente.

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