Ma donna non è garanzia di qualità

Assegnare i posti nei consigli in base al sesso svaluta le più degne e agevola le più frustrate

Ma donna non è garanzia di qualità

Eletta «in quanto donna»? Penso che mi vergognerei. Certamente sarei in grandissimo imbarazzo al pensiero di essere stata scelta o cooptata per l'unico fatto che non dipende dalle mie capacità, dalla fatica, dall'impegno, dall'esperienza. Bensì dall'incontro casuale di due gameti e di una legge ad sexum.
Invece, le donne verdi e rosse sono ancora fissate con le quote rosa. E già questo intreccio di colori mortifica, per la sua ridicola connessione, tutte quelle donne impegnate nella politica, negli affari, nel lavoro in genere, che vorrebbero essere apprezzate «in quanto» persone e non per un sessismo davvero oramai troppo vintage e tendente allo scolorito.
Non se ne può più. A marzo è stato dato il via libera alla norma che prevede l'applicazione graduale delle quote rosa negli organi di gestione e di controllo delle società. Ho apprezzato la situazione, solo perché spero si trasformi in un argine di controllo delle querimonie femminili. Sono in attesa di vedere, però, quali lotte intestine esploderanno nei territori colorati del sesso debole, per sgomitare tra le rose e sgominare le più meritorie, a favore delle più politicizzate.
Ora si pone il problema del Comune di Roma, a causa della decisione del Tar del Lazio che ha annullato la giunta per il mancato rispetto dell'articolo 5 dello Statuto. Inteso ad assicurare la presenza equilibrata di uomini e donne, nella composizione dell'esecutivo. Ben gli sta, a chi ha voluto questa norma sull'onda, anomala e distruttiva, del politicamente corretto. Se la legge c'è, è giusto che un giudice imponga di applicarla.
Tuttavia, questo garantismo esasperato delle minoranze deboli (ma si può ancora dire che le donne siano una minoranza debole, soprattutto se verdi, rosse e perennemente combattenti?) dovrebbe coerentemente portare al rispetto di quote per i gay, le lesbiche, i transessuali e perfino gli ermafroditi. Se è una questione di sesso, la legge deve essere ad ampio raggio e senza trascurare le autentiche minoranze deboli. Così ragionando, invece, c'è vera discriminazione sessuale, poiché si valuta l'esclusiva alternativa maschio o femmina; ci si ferma a un dato apparente e non alla sostanza della identità sessuale. Si potrebbe addirittura discutere sulla legittimità costituzionale di norme che si riferiscono alla «rappresentanza femminile», omettendo di articolare le note, e ormai accreditate dalla scienza mondiale, diversificazioni obiettive. Il sesso dei componenti, con o senza tutte le sue declinazioni, non può essere dunque il parametro con il quale stabilire se un organo di controllo o di potere esecutivo è stato o no legittimamente costituito.
Siamo in democrazia: decidono gli elettori prima e la maggioranza prescelta poi. Nella speranza di tutti di aver votato persone meritevoli delle ulteriori scelte cui le abbiamo per legge demandate.
Qualsiasi elettore rimarrebbe deluso nel sapersi rappresentato da una donna solo perché tale, e non perché preferita, tra gli uomini papabili, in forza del suo curriculum. Sono proprio le donne più frustrate, invece, che ancora chiedono l'aiuto degli uomini, di potere, per farsi spostare una poltrona e accomodarvicisi. Le altre, ci arrivano da sole, con le loro forze e la capacità anche di sollevarsi da sole la sedia. E tra queste ci sono anche quelle bieche e disoneste; quelle che fanno lobby con gli uomini; quelle che fanno altre cose con gli uomini; quelle che sono arrivate in ascensore e poi sono state buttate giù dalle scale. Chi può assicurare, infatti, che dire donna voglia dire ottimo? Il dubbio vale sia per l'uomo, sia per la donna. È, dunque, insopportabile la presunzione dominante dell'idea che la donna sia sempre, o possibilmente, migliore.
È la persona, se non si ragiona a sesso unico, che fa la differenza e può garantire un minimo di credibilità al cittadino che ha il compito di votarla.

La storia, i fatti, le qualità, i pregi di quella persona contano. Non il mercato dei numeri sessisti nei consigli e nelle giunte, che svaluta le donne degne e coltiva le ambizioni rancorose di quelle ancora paludosamente stagnanti nella obsoleta invidia del pene.

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