La doppie penne all’amatriciana

Nel libro di Robert Harris si parla dello scrittore ombra di Blair Perché nei Paesi anglosassoni avere il «negro» è normale. Ecco chi sono e che cosa fanno i loro emuli italiani

La doppie penne all’amatriciana

Enzo Carra, da portavoce di Arnaldo Forlani entrava in Transatlantico chiedendo: «Ahò, che gli faccio dì oggi ad Arnaldo?». Mitico. Ci sono scrittori che scrivono libri di altri scrittori, inventano le vite dei vip o fanno la fortuna di leader destinati all’anonimato. Certi «autori-ombra» danno forma a quel che non ce l’ha, infilano perle avvincenti nell’ordito noioso dei discorsi ufficiali, proiettano la loro fantasia su vite noiose e illuminano col genio la monotonia; certe penne che sanno rendere emozionanti politici freddi come stoccafissi, amabili le rockstar tendenzialmente isteriche, colti i vip tv sottratti all’agricoltura, o statisti dei brillanti analfabeti di ritorno. È curioso che in tutto il mondo i ghost writers abbiano professione e ruolo, tranne che da noi. Ed è un libro che ti ci fa pensare: così unisci con un filo chi ci ha provato, da Umberto Eco a Giuliano Ferrara, dai funzionari di partito autodidatti (Clemente Mastella ex ombra di Ciriaco De Mita) ai politici che si affidano agli ex militanti (come Piero Fassino).
E poi un buon libro deve prima di tutto «farsi leggere». Ti aiuta Robert Harris con un thriller - Il Ghostwriter, Mondadori, pagg. 321, euro 18,60 - che ti costringe a tenere la lampadina accesa sul comodino. Ovviamente un buon best seller deve aggiungere allo sciroppo accattivante della scrittura popolare anche un pizzico di sale del tempo che narra, farti riflettere come e più di un saggio. Harris (nato giornalista, approdato nel 1992 alla letteratura da classifica) prima di questo libro, applicando la stessa ricetta, aveva scavato i paradossi dell’informazione e della storiografia nella sua bellissima ricostruzione della clamorosa beffa su I diari di Hitler; ha poi reinventato il filone del giallo storico intrecciandolo addirittura all’Olocausto nel sublime Fatherland e poi in Archangel ed Enigma, tutti libri diventati film (accadrà di nuovo?).
Il ghost writer è attualissimo perché - fin dalla copertina - racconta il crepuscolo precoce di Adam Lang, ex premier progressista britannico con passato da fumatore di spinelli, presente da conferenziere di lusso a gettone, e un possibile futuro da condannato per crimini di guerra in Afghanistan. Lang è ovviamente Tony Blair, ma potrebbe essere un qualsiasi leader progressista nel tempo delle guerre sporche, di Guantanamo, Al Qaida, delle elezioni vinte con gli spin doctor (il suo, notissimo, era Alastair Campbell), Francesco Rutelli o Massimo D’Alema. Il romanzo forse non sarebbe avvincente com’è se Harris non partisse da uno straordinario punto di osservazione, calando(ci) nei panni del protagonista, un ghost writer osannato tra gli editori, e chiamato a «salvare», con il suo editing, la pizzosa biografia di Lang, abbandonata (causa suicidio) dal precedente ghost writer (già portavoce del leader). Tra colpi di scena e indagini, tra il passato «narrato» (e re-inventato) e quello «reale», si intreccia un giallo a più piani. Lang è uno straordinario mentitore, e il suo nuovo ghost writer lo scopre per gradi: «Scrivere una biografia - dice - è psicanalisi».
Ma allo stesso tempo, Lang è carismatico, e il protagonista ne è attratto, calamitato e quasi sedotto. Lui, che ha una ragazza pacifista e di ultrasinistra, che vorrebbe Lang alla sbarra, deve scrivere per lui dichiarazioni che dribblano giornalisti e magistrati. Lui, che si vanta di «non sapere nulla di politica», si deve calare in un mondo nuovo. C’è un po’ di Pigmalione, un po’ di Loosey (quello del memorabile The dresser, il servo di scena), un po’ di Alice nel paese delle meraviglie. E ci sono anche la soluzione del giallo, un colpo di scena, e il vero motivo per cui lo scrupoloso e pedante collaboratore James McAra si è tolto la vita. Ma poi c’è anche il confronto fra due mondi, e la scrittura che si avvolge su se stessa. Il protagonista ha una sola settimana per rendere sexy un manoscritto custodito con lo stesso livello di sicurezza della riserva aurea di Fort Knox. Il testo di McAra inizia come le più polverose e scontate memorie: «Lang è un patronimico di origine scozzese, e la mia famiglia ne va fiera...». Il libro che il nuovo ghost writer scrive ha un altro passo: «È per amore che sono entrato in politica. Per una donna venuta a bussare alla mia porta in una piovosa domenica pomeriggio...».
È interessante che nel libro di Harris ci sia un confronto fra grandi scuole. In Italia, invece, domina il fai-da-te. Certo, si ricorda il famoso discorso scritto nel 1994 da Giuliano Ferrara per Silvio Berlusconi (con tanto di stretta di mano in Aula a Napolitano). E si è dimenticata la biografia che Umberto Eco compose per Marco Pannella (al leader radicale non piacque). Achille Occhetto si affidava a un amico intellettuale, Giaime Rodano, che gli mise in bocca l’Ulisse di Tennyson nel congresso della Bolognina. Piero Fassino si è fatto biografare da un giovane dirigente diessino, Fabio Nicolucci. Walter Veltroni ha un ghost occasionale, Ugo Riccarelli, scrittore, che ha vinto lo «Strega» (dicono grazie a lui, ma è una cattiveria), e uno «industriale», Claudio Novelli (che era uno storico).

Alessandro Campi, colto professore, scrive le tesi del Fini «sarkosiano», ma poi il leader, come tutti gli altri, fa da sé per il resto. La verità è che in Italia il Ghost writer non sarebbe stato mai scritto, perché il vero ghost writing non esiste. Purtroppo, è il caso di dire.
luca.telese@ilgiornale.it

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