Una dozzina le navi ancora in ostaggio

La Buccaneer è stata finalmente liberata, dopo un sequestro lungo mesi, e pochi giorni fa era toccato anche a due navi tedesche, la Hansa Stavanger e la Victoria. Tre buone notizie una dietro l’altra: a festeggiare gli equipaggi e chi si è battuto per la loro liberazione, ma in almeno un caso anche i pirati somali, che per restituire l’Hansa Stavanger hanno ricevuto un riscatto, in pratica ufficialmente ammesso, di 1,5 milioni di euro. Un pagamento milionario, che premia un’attività quanto mai intensa: dall'inizio dell'anno, nel golfo di Aden, una delle rotte più trafficate al mondo, sono stati oltre 100 gli attacchi lanciati dai miliziani somali contro le navi in transito. Almeno all’apparenza, la presenza delle marine internazionali, compresa quella italiana, non ha infastidito più di tanto l'attività dei pirati. Che infatti, nei loro porti sulla costa africana, tengono ancora in ostaggio, nonostante i recenti rilasci, almeno una dozzina di navi.
Contro la situazione nessuno sembra per ora in grado di intervenire con efficacia: non di certo il governo somalo, chiuso in un albergo di Mogadiscio mentre il Paese continua a essere squassato da una guerra civile in atto ormai da anni. Non di certo le milizie islamiche, a cui, secondo i sospetti di molti, arriva una fetta consistente dei riscatti pagati dagli armatori delle navi sequestrate. Né ci si può aspettare che contro i pirati che stanziano fra la regione di Puntland e quella di Somaliland, dove si combatte incessantemente e intensamente da 18 anni, riescano ad arrivare altri Stati africani, come il Kenya o l'Eritrea, che pure in Somalia è intervenuta e sta ancora intervenendo pesantemente con l'esercito.
Proprio la posizione dell’Eritrea si sta facendo sempre più difficile: nei giorni scorsi il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in visita in Africa, ha puntato il dito contro Asmara, accusata di «destabilizzare, con la sua azione militare in favore dei ribelli, la Somalia». La Clinton vedrà anche il premier somalo, anche se, per ovvi motivi di sicurezza, l'incontro avverrà a Nairobi, in Kenya. Prontamente il governo eritreo ha respinto l’accusa al mittente, tramite il ministro dell'Informazione, Ali Abdu, che a sua volta ha stigmatizzato l'aiuto che dagli Usa è arrivato al governo di Mogadiscio, «perché non è certo con 40 tonnellate di armi e munizioni e con il potere delle armi da fuoco che si può arrivare a una soluzione».
Insomma, coi suoi 18mila morti e il milione di profughi solo negli ultimi due anni, quello somalo resta un ginepraio in cui una soluzione appare ancora lontana, con continui rovesciamenti di fronte e posizioni quantomeno incerte. Si fronteggiano, da un lato, il governo di Mogadiscio, guidato dal presidente Sheikh Sharif Ahmed, supportato con decisione appunto dagli Usa, dall'altro gli estremisti di al-Shabab, che i servizi segreti occidentali ritengono una minaccia internazionale, capace di esportare il terrorismo dalla Somalia, e che l'Eritrea, pur di nascosto, starebbe ancora finanziando.


In mezzo, i pirati del golfo di Aden e gli armatori delle navi che lo attraversano: gli uni pronti all’attacco, per cercare nei riscatti nuovi fondi per la loro attività e per combattere altri gruppi di miliziani; gli altri desiderosi soltanto di attraversare quel tratto di mare per poi dirigersi verso il canale di Suez, magari con l'ausilio delle marine straniere, statunitensi, europee e cinesi in testa. L'alternativa, non certo gradita al commercio mondiale, resta quella di circumnavigare l'Africa, doppiando Capo di Buona Speranza, con un inevitabile aumento dei costi.

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