Le due facce di una città che palpita ma non vive

Quartieri di lusso blindati, slums pericolosi, check point sulle strade: una metropoli ancora segregata

Lucia Galli

da Johannesburg

Una città non basta. Johannesburg è insieme tante città e nessuna. Provare a conoscere Jo'burg è come giocare a quel vecchio gioco, connecting the dots, dove si uniscono i puntini. Solo un poco più pericoloso perché ci sono zone dov'è meglio tirar dritta quella linea e non fermarsi mai, altre dove è tollerato andare a zonzo, altre dove si finge che vada tutto bene. Il disegno che se ne ricava è quello di un gigantesco «borgo» agglomerato che - come direbbe Manzoni s'incammina a diventare città, ma come ti spiegano qui, «ha abbandonato il suo centro per provare a sopravvivere a se stessa». Terza città più popolosa di tutta l'Africa, con 8 milioni di abitanti nell'intera provincia di Gauteng, 11 lingue ufficiali, centro pulsante dell'economia del Sudafrica, cuore di quella che fu la lotta all'apartheid. E poi? Nemmeno una piazza dove passeggiare. «Se non mi fermo al rosso dei semafori, non ci faccia caso. Se poi accelero, si abbassi». Pensi che esageri Charlie, occhi vispi che scrutano ogni incrocio al volante della sua auto. Fiero di fare la guida, ma anche l'autista. Se taci, tace. Se parli, parla. E poi è un fiume in piena perché lui ha conosciuto la sofferenza passata nelle township dove i neri erano segregati. L'ha letta negli occhi di suo padre e poi sui libri di scuola perché Charlie, in realtà, sa anche la fortuna che cos'è: «Appartengo alla prima generazione libera». E quel che più spiace è che la città, invece, non lo sia ancora. Lo capisci a downtown dov'è inutile cercare di andare a piedi: è qui che i semafori è meglio non considerarli. Ci guidi attraverso: non è una città fantasma, semmai di fantasmi. Dove non è detto che vivere per strada sia peggio che abitare in uno degli squad, gli edifici occupati dove i comfort non prevedono di capitolato né acqua né luce. E probabilmente nemmeno troppe buone maniere. Questione di vicinato: accanto potresti avere anche hotel di lusso e grattacieli che ospitavano banche, ma da qui a parte qualche sparuto posto di guardia che tutto osserva, ma nulla vede - se ne sono andati tutti. Chi aveva un lavoro, un business e qualcosa da perdere ha traslocato da tempo, lasciando deserta anche la torre delle telecomunicazioni, ricostruita come tutto il centro a newtown, più a sud. Il governo ha perso la partita, anzi non la gioca più nemmeno. Semplicemente ha abbandonato quello che era il cuore della città: «Se dovessi venirci a piedi prosegue Charlie lo farei con abiti stracci e magari senza lavarmi per un po', ma non so se basterebbe a evitare guai», glissa con un eufemismo. Lui non ama i paradossi, se non quando finalmente si ferma a un check point dove tirare il fiato. Ex prigione, ex fortezza, Constitution Hill val bene quel drive through all'inferno e ritorno. Qui brucia ancora, nella grande fiamma della memoria, tutto l'ardore della battaglia contro la segregazione razziale. Qui grandi murales ricordano le battaglie anche delle tante donne che da Cecelia Palmer a Miriam Makeba - hanno alzato la voce e fatto grandi i sogni di questo immenso paese. Qui furono imprigionati, in tempi diversi e fra i molti altri, due promettenti avvocati: uno si chiamava Mohandas Gandhi, futuro mahatma, che ebbe a dire «Sono ciò che sono grazie a quanto visto in Sudafrica». L'altro è Nelson Mandela, il campione della patria. Per trovare, però, il suo vero spirito, chi s'infila fra le insidie di Jo'Bourg lo fa soprattutto per due motivi. Primo, commuoversi e indignarsi, insieme, allo struggente, imperdibile, Apartheid museum di Gold Reef road, poi, per andare come in pellegrinaggio a Soweto. L'enorme township si è ripulita: alcuni quartieri sono così nuovi e lindi da sembrare finti, fra villette tutte uguali e bimbi che sciamano da scuola in uniforme. L'aria, però, è quella di un equilibrio sospeso. Lo capisci a Vilakazi street, dove tutto cambia di nuovo e dove Mandela visse quei pochi anni da libero a 100 metri, non di più, da un altro big di quella storia, l'arcivescovo Desmond Tutu. «Due premi Nobel nella stessa strada», ti ricorda in coro la varia umanità che staziona in quel segmento di via che, se non fosse per una povertà appena incipriata e i tetti d'amianto, potrebbe sembrare hollywoodiano. Bancarelle, souvenir, musica, lo stordimento è breve fra la villetta ora abitata dai parenti di Tutu e la casetta del giovane Nelson, poco più che una «porziuncola» in mattoncini rossi, che sembra catapultata qui da un passato lontano. Di quella rainbow nation tanto sognata, per cui tanti hanno combattuto e perso la vita, sembra restare davvero poco. Basta scendere verso lo stadio di Orlando dove avvennero i primi scontri nel 1976. Fra circonvallazioni che a un europeo sembrerebbero già giganti raccordi anulari o immense ring road, la natura si riprende, appena può, i suoi spazi e ti ricorda che sei in Africa: basta un ruscello, o una piccola zona umida per sognare grandi spazi tipo Re Leone o La mia Africa. Eppure qui il film è un altro, ed è quello di bidonville e slum che si aggrappano alla vita con la stessa disperazione di ieri. Eccola l'altra, ennesima, faccia di Johannesburg: sulle colline si attraversano i suburbs: i quartieri dei bianchi. Ville faraoniche, filo spinato elettrificato, guardie armate ai cancelli. Siamo arrivati fin qui con una sola domanda: «Come si vive a Jo'Burg?». «Benissimo», ti rispondono. «Hai mai visto Montecasino? Ha anche un nome derivato dall'italiano! Non puoi perderlo».

Per molti Jo'Burg è questo: 26 ettari di centro commerciale, un leisure complex che surroga alla vita vera. Là fuori, invece, quel borgo enorme, confuso e sofferente palpita e grida ancora forte di voler divenire città.

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