DUE MESI AL VOTO

nostro inviato a Denver

È un gioco di propaganda, tanta, tantissima, invadente come in Europa nemmeno si immagina. E di strategia. Mancano una sessantina di giorni all'elezione del presidente degli Stati Uniti e su un punto i consulenti di Obama e McCain concordano: questa campagna si è ormai trasformata in un referendum. Vincerà chi riuscirà a stabilirne i parametri.
La domanda che conta. Gli elettori andranno alle urne per giudicare gli otto anni di presidenza Bush o per valutare se il primo candidato afroamericano merita la loro fiducia? Se prevale il primo quesito, John McCain non ha speranza. È quello che potremmo definire lo scenario Veltroni: anche il leader del Partito democratico la scorsa primavera ha cercato di sganciarsi dall'eredità di Prodi, ma negli italiani ha prevalso il desiderio di sanzionare il malgoverno dell'ex premier e Berlusconi ha vinto facilmente. Oggi negli Stati Uniti il tasso di popolarità di Bush è al 26%, minimo storico. L'economia va male, il valore delle case crolla, la disoccupazione aumenta, decine di milioni di cittadini non riescono a pagare i mutui, né gli enormi debiti accumulati con le carte di credito americane, né le costosissime assicurazioni sanitarie. Solo il 35% approva la guerra in Irak mentre il Partito repubblicano viene giudicato inaffidabile e corrotto.
Insomma, in teoria McCain non ha chances. Però deve vedersela con Obama. Ed è questa la sua fortuna; che a noi europei può sembrare incomprensibile. Visto dal Vecchio Continente Barack è un redentore, un messia; il nuovo Jfk, bello ed eloquente, che propone un nuovo modo di fare politica.
I dubbi su Barack. Negli Stati Uniti la percezione è diversa: e se una parte dell'elettorato lo adora, un'altra ha forti riserve sul suo conto. La riprova? I democratici in novembre trionferanno al Congresso, ma nei sondaggi Obama ottiene circa dieci punti in meno rispetto al partito a riprova di una perplessità diffusa. E questo alimenta le speranze dei repubblicani: se riescono a trasformare l'elezione in un referendum su Obama, McCain può farcela. Ci si può fidare di lui? Chi è davvero questo giovanotto spuntato dal nulla? Quali sono le sue credenziali? Il candidato repubblicano da settimane martella, non risparmiando attacchi personali a dispetto della stima (ricambiata) per il proprio rivale. Il senatore dell'Illinois ha capito qual è la posta in gioco e ora conduce una campagna su due fronti: risponde colpo su colpo e, al contempo, ricostruisce la propria immagine, dimostrando agli elettori di essere un leader concreto, rispettabile e non una celebrità da jet-set descritta dagli spot repubblicani. La Convention di Denver è servita a spezzare l'assedio, ma non è stata risolutiva. La guerra è destinata a diventare sempre più sanguinosa e verrà combattuta su più fronti.
La questione razziale. In teoria nessuno la pone. Anzi, la prima volta di un candidato nero alla Casa Bianca è un fatto storico, di cui destra e sinistra si compiacciono. Ma in certe zone del Paese continua ad essere un problema: negli Stati del Sud ad esempio dove rimane una forte diffidenza verso la gente di colore; ma anche negli Stati più colpiti dalla crisi. Obama piace ai giovani, agli intellettuali, alla borghesia medio-alta delle grandi città, ma tra gli operai bianchi (i cosiddetti colletti blu) di Stati come l'Ohio non sfonda. E non tanto per sfiducia nelle sue capacità, bensì per il prevalere di una diffidenza razziale, che la disoccupazione esaspera. Molte persone semplici e con curriculum scolastico elementare non credono che un nero possa risolvere i loro problemi. Per vincere Obama deve assolutamente ribaltare questa percezione, il problema è che non può dirlo apertamente, perché il tema è tabù.
Le esigenze della classe media. L'altro giorno il Denver Post titolava: «È l'economia, stupido». Già: sarà l'economia il fattore decisivo. E qui invece è McCain a essere in difficoltà. E non solo perché ha ammesso di capire poco al riguardo. Fino a qualche mese fa il senatore dell'Arizona non risparmiava critiche alla politica fiscale di Bush, che riteneva insostenibile e troppo favorevole alle aziende e ai ricchi. Ora, però, si è ricreduto e propone addirittura di accentuarla. Questo lo espone all'accusa di essere il clone di Bush, su cui i democratici martellano ogni giorno. Deve correggere il tiro e, al contempo, dimostrare l'inconsistenza delle proposte di Obama, il che, peraltro, è possibile. Il candidato democratico ha promesso tagli alle tasse per il 90% delle famiglie e una moltitudine di interventi statali in tutti i campi, dall'educazione alla ricerca, dall’energia alla sanità. È un liberal, ovvero, secondo i criteri Usa, un socialista. Dove troverà i fondi? Davvero la gente vuole tornare all'epoca, per molti infausta, del big governement?
Il voto delle donne. È il grande cruccio di Obama: nonostante la riconciliazione con i Clinton, circa il 40% delle fan di Hillary non intende votare per il senatore di Chicago. E ora McCain ha scelto Sarah Palin come vice. L'intento è chiaro, ma le conseguenze sono imprevedibili, perché la governatrice dell'Alaska è contraria all'aborto e non è certo una femminista, al contrario delle fan dell'ex first lady, che ora potrebbero ricompattarsi, decidendo di votare per Barack «turandosi il naso». La Palin è giovane, dinamica, madre di cinque figli, potrebbe piacere alle elettrici indipendenti, per le quali la questione del diritto alla vita non è prioritaria. Ma è anche inesperta e molti si interrogano se sia pronta a ricoprire la seconda carica della nazione. Fa notizia, ma rischia di privare McCain di un argomento finora convincente: come può accusare Obama di non essere preparato se poi sceglie al suo fianco una donna ancor meno qualificata?
Una questione di personalità. Tanti, troppi dubbi, che l'elettore potrebbe risolvere lasciandosi guidare non da considerazioni politiche, ma dall'istinto, dalla simpatia. Con chi si identificano di più gli americani? Con un giovane dall'infanzia segnata dallo sforzo di superare le barriere etniche o con un dinamico signore dai capelli bianchi ed eroe di guerra? Nelle grandi città la risposta è netta: Obama. Ma nell'America di provincia no.

McCain è un uomo alla mano, che ama raccontare barzellette e che quando viaggia si ingozza di hamburger e hotdog. Barack invece veste e parla bene, troppo raffinato e un po' snob. Rischia di perdere per questo, con buona pace degli europei.
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