Duecentomila palestinesi invadono l’Egitto

Sfida al Cairo: diciassette bombe aprono i varchi di Gaza e un fiume umano sciama oltreconfine per rifornirsi di medicinali e carburante. Il governo Olmert teme che molti possano unirsi ai guerriglieri in Libano

Duecentomila palestinesi invadono l’Egitto

Il muro è caduto, Gaza si è svuotata, la marea palestinese ha invaso l’Egitto. Il grande crollo, la risposta in 17 botti al blocco israeliano di Gaza scatta all’alba. A Rafah, desolata cittadina al confine tra la Striscia e il Sinai egiziano, decine di militanti mascherati si avvicinano alla barriera di acciaio e cemento che serra i quattordici chilometri di frontiera. Ai primi raggi di sole diciassette boati, diciassette pinnacoli di fumo e un’unica nube di sabbia.

Quando l’orizzonte riemerge dalla polvere gli increduli passanti palestinesi rivedono la Rafah egiziana, la città gemella scomparsa da anni alla vista. La voce corre di casa in casa, sveglia la città, trascina al confine uomini, donne, vecchi e bambini. I primi esitanti curiosi diventano folla, la folla è una fiumana impazzita. I poliziotti di Hamas disegnano file impazienti tra le lamiere contorte, muovono un bulldozer per spianare il passaggio.

Le guardie egiziane osservano e battono in ritirata. La sera prima battagliavano con i palestinesi ammassati al valico chiuso da otto mesi, li bersagliavano con cannoni d’acqua, bastonavano e abbattevano i più riottosi.

Ma l’onda umana non ha voglia di vendetta, solo curiosità e brama d’acquisti. Quando i poliziotti di Hamas le danno il via travolge il confine s’infila tra le viuzze fangose della Rafah egiziana, svuota negozi e mercati. In poche ore transitano 200mila palestinesi. La domanda per l’Egitto è quante di quelle cavallette torneranno indietro, quanti reclusi di Gaza si trasformeranno in clandestini.
Per Israele l’interrogativo, più angosciante, è quanti raggiungeranno i campi in Libano, quanti torneranno con armi e nuovi missili da lanciare contro Sderot e le cittadine del Negev. Il blocco dei rifornimenti di gasolio, carburante e medicine doveva convincere Hamas e i gruppi armati a interrompere quei lanci e concedere sollievo a una popolazione prostrata dal blocco. Hamas, invece, ha fatto saltare il muro e, con esso, il tavolo della partita riversando sull’Egitto la pressione di una popolazione disposta a tutto pur di riempire le dispense.

E per sfruttare al meglio la mossa il grande capo Khaled Meshaal propone dall’esilio siriano di spartire il controllo del valico “liberato” con i “nemici” di Fatah e con l’Egitto, invoca la solidarietà delle «silenti nazioni arabe». Insomma non solo cancella gli accordi che affidavano il valico di Rafah ai poliziotti europei e alle telecamere israeliane, ma tenta d’imporre al presidente palestinese Abu Mazen e al governo di Fatah l’impossibile riconciliazione.

Il primo a far buon viso a cattivo gioco è il presidente egiziano Hosni Mubarak costretto a giustificare la ritirata dal confine con la necessità di fornire sollievo a una Gaza affamata da Israele. Gaza, rifornita dai tunnel in cui passano armi, viveri e persino la tratta delle prostitute, soffre - in verità - solo i costi esorbitanti del mercato nero. Un mercato su cui Il Cairo chiude gli occhi e Hamas impone tasse e gabelle.

Neppure Israele ha grandi spazi di manovra. Potrebbe accusare l’Egitto di aver favorito i traffici di Hamas e di non aver mosso un dito per fermare la fiumana palestinese, ma metterebbe a rischio le relazioni con uno dei due stati arabi firmatari di un accordo di pace.

Così mentre all’Onu si cerca un compromesso per impedire il veto statunitense a un voto del Consiglio di Sicurezza sul blocco di Gaza, la comunità internazionale deve far i conti con la caduta del muro di Rafah e l’apertura di un nuovo irrisolvibile capitolo del conflitto israeliano palestinese.

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