E Bersani canta: «Noi, quelli che rubano»

Quel giorno al palazzetto dello sport di Bologna venivano giù note e diavoli. L’ex ragazzo di Bettola stava lì, con il telefonino in tasca, giacca e cravatta, in attesa di qualche notizia. Tutti i suoi colleghi di partito «inciuciati» a Roma. Era il 1996, Prodi aveva vinto le elezioni e ballavano un po’ di poltrone da ministro. Pierluigi Bersani aveva altro da fare. Aveva acquistato un biglietto per il concerto degli Ac/Dc e ora stava mimando, da baritono, la voce di Brian Johnson che urlava Send for the man: «Tu vuoi amore sporco, vuoi lussuria, vuoi una cattiva reputazione. Io ho i requisiti, posso aprire ogni porta. Ooh yeah».
Qualche tempo fa gli chiesero se conosceva i testi di quella canzone, di quella band tanto amata, la più amata dopo i Led Zeppelin. Bersani, serafico, rispose: «Ho cantato anche di peggio». Ma lui, in fondo, di tutti i leader della sinistra è quello più vero. Non pensa come Veltroni di meritare il Nobel per la letteratura. Non ha il baffo da oligarca come D’Alema. Non ha la boria soporifera da prevosto di Prodi. Bersani è cresciuto a Bettola, a due passi da Piacenza, sopra l’officina meccanica del padre, con in faccia il fiume, la pompa da benzina e la statua di Cristoforo Colombo, che magari sarà nato a Genova, ma aveva i nonni qui.
Bersani è rock duro. È il suono dei Metallica. È vino e vodka. È uno che sogna una sinistra bocciofila e popolare. Il guaio è che quando guarda i suoi colleghi di partito pensa ogni volta di aver sbagliato stanza. Non lo ammetterebbe mai in pubblico, ma ha trovato un modo per sputtanare i vizi nascosti della sinistra. La sua verità si trova nei testi di Vasco Rossi. Sono messaggi in codice. La play list di Bersani nasconde i vizi di un partito in crisi d’identità, con troppi angeli dalla faccia sporca e dove la questione morale affoga nei bancomat e nelle segretarie della dotta Bologna.
Bersani in questi giorni era a Sanremo. Costanzo lo ha beccato in terza fila e gli ha fatto dire quattro parole su Termini Imerese, sulla Fiat in fuga e sull’orizzonte dei cassaintegrati. Il segretario era lì per ascoltare Malika e l’orazione patriottica dell’ultimo Savoia. Nel pomeriggio c’è stato il gioco delle canzoni. Cose del tipo: ma quale è la canzone del Pd? Bersani ha risposto: «Siamo solo noi». Vasco appunto. Appunto. Basta ascoltare. E uno. «Siamo solo noi, quelli che non hanno più rispetto per niente, neanche per la gente». E due. «Siamo solo noi quelli che ormai non credono più a niente e vi fregano sempre». E tre. «Siamo solo noi quelli che non han voglia di far niente». E quattro. «Rubano sempre». Questa davvero è una sinistra che non ha più bisogno di santi e di eroi.
Note nascoste. Il Pd si guarda e non si riconosce. Sogna il futuro e si rifugia nel passato. Non è più Pci. Non è più Pds. Non è Ulivo. È una serie di cose senza senso, un po’ cattolico e un po’ comunista, un po’ riformista e tanto reazionario, vaga dalla rifondazione al casinismo, tentato dal centro e dagli estremi, sempre in cerca di un baricentro che non c’è. È cosa uno, cosa due, cosa tre, cosa quattro, cosa cinque e soprattutto cosa sei. È piazza e parlamento. È un’opposizione liquida. È forcaiola con gli altri e garantista con se stessa. È Pannella e Travaglio. È un’eterna incompiuta. È tutto questo. E non si sa bene cosa sia.
Così, quando Bersani diventa segretario, cosa sceglie come colonna sonora della nuova stagione? Vasco Rossi. Sempre lui. Sceglie Un senso.

«Voglio trovare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha. Voglio trovare un senso a questa situazione, anche se questa situazione un senso non ce l’ha». Vasco docet. Questo Pd un senso non ce l’ha.

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