E Kierkegaard fu sedotto dal matrimonio

Nella Copenaghen dell’Ottocento, sul finire della notte cinque uomini lasciano un banchetto a base di vino e di filosofia. Il Giovane, il Sarto, Victor Eremita, Constantin Constantius e Johannes il Seduttore hanno partecipato a un simposio sull’amore; rincasando, scorgono una coppia che conversa sorseggiando il tè in giardino. Nell’uomo riconoscono il giudice Vilhelm, si fermano a rubare le sue parole, poi anche un manoscritto che questi ha lasciato distrattamente su un tavolo. È Sul matrimonio, in risposta alle obiezioni di un marito (Rizzoli, pagg. 122, euro 5), opera di Sören Kierkegaard, di cui il giudice Vilhelm è un alter ego.
I cinque dandy-filosofi che di notte indugiano in dissertazioni sull’amore si imbattono nel borghese Vilhelm quando il buio cede alla luce del giorno, mentre il giudice si affaccia su un mattino tranquillo. Un piccolo giallo, ammonisce l’introduzione, poiché nel testo non v’è traccia del prologo. Che in realtà dice molto sul senso di questo scritto di Sören Kierkegaard (1813-55), che lo compose tra il ’43 e il ’45. L’autore di Aut-aut e Diario del seduttore scrisse la maggior parte delle sue opere sotto pseudonimo. I cinque sono maschere di cui si era servito per esporre «dall’interno» alcune possibilità esistenziali. Il seduttore e gli altri in Kierkegaard hanno impersonato lo stadio estetico della vita, che appartiene all’irruenza della gioventù. Ora passano il testimone a Vilhelm, che incarna invece quello etico, a cui fanno capo la maturità, il bisogno di ordine e pace.
Kierkegaard si immagina marito, lui che in vita marito non fu mai. Aveva abbandonano il progetto a 24 anni, dopo la rottura del fidanzamento con Regina Olsen. Nel libro trasfigura la sua rinuncia in un elogio del matrimonio, letto in chiave di santificazione e realizzazione concreta dell’amore. Scrive che «solo il marito è un vero uomo». Aggiunge che il matrimonio è il superamento tutto cristiano del paganesimo, che attribuiva l’innamoramento a un dio, Eros, perché in realtà la perfezione sopraggiunge solo con la consacrazione del sentimento. Sul Matrimonio è un’opera inattuale, in cui si condanna apertamente il narcisismo individualista di quanti scelgono la solitudine: il filosofo li definisce eccentrici infelici. Kierkegaard relega gli scapoli tra gli immaturi, che privano se stessi della possibilità di cogliere la pienezza della vita. Vilhelm è l’unico personaggio a incarnare lo stadio «intermedio» del vissuto, posto tra gli estremi dell’infantile dedizione a se stessi e dell’assoluta devozione alla spiritualità. Unico e in fondo meno intrigante dei suoi pari: le scelte estreme all’apparenza sono più ricche di fascino. Ma non sempre tornano i conti, nell’elogio tributato da Vilhelm al talamo nuziale: spesso le sue parole suonano eccessive.

Se la felicità non è di questo mondo, è meglio aggrapparsi all’illusione di aver scelto il modo migliore di vivere. Lo ricorda anche Kierkegaard, non senza ironia, nel motto che introduce il felice diario: «L’illuso è più saggio di chi illuso non è».

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