"E noi nel Libano in fiamme con le mani legate"

"E noi nel Libano in fiamme con le mani legate"

da Tebnin (Comando italiano Sud del Libano)

«Eccoli...». Alza il binocolo, guarda le due macchie d’ombra nella roccia: «Vedi? Sono quadrate, segui il sentiero lungo la montagna fino all'ingresso, quelli sono i bunker di Hezbollah, sono ancora come qualche settimana fa quando li ho trovati». Il tenente colonnello Alfonso Cornacchia, vicecomandante dell’11° Reggimento bersaglieri è orgoglioso delle sue scoperte. Batte queste gole a sud del Litani dai primi di ottobre quando suoi bersaglieri hanno preso il posto dei paracadutisti della Folgore nella base di Maraka. Da allora non ha sprecato un giorno. Ha consultato le informazioni passate all’Unifil dagli israeliani e ha setacciato questa gruviera di saracchi, forre e dirupi. Per sapere che qui Hezbollah nascondeva i suoi arsenali, non ci volevano gli israeliani. Eravamo venuti in questa zona il 24 agosto 2006, dieci giorni dopo la fine della guerra, in compagnia di un informatissimo cristiano del sud. Qui Mohammad, un abitante del posto legato a Hezbollah, ma anche al nostro accompagnatore, ci aveva mostrato i segreti della valli di El Najar, i suoi bunker pieni di armi munizioni, le mulattiere attraverso cui missili, armi anticarro ed esplosivi scendevano fino al fronte di Beint Jbeil. Era già tutto scritto su Il Giornale del 25 agosto 2006. L’Unifil per scoprirlo ha dovuto aspettare 15 mesi e la buona volontà del tenente colonnello Alfonso Cornacchia, la certosina attenzione di un ufficiale che cannocchiale in una mano e informazioni israeliane nell’altra, batte roccia dopo roccia queste vallate. Ma anche la buona volontà dell’ufficiale serve a poco. «Ancora non so se lì dentro ci siano o ci fossero delle armi perché non ho mai potuto metterci piede». Lo sguardo di Cornacchia racconta di un cacciatore derubato della preda, ma lui non commenta, spiega solo le procedure: «Il nostro mandato c’impedisce di agire o controllare. Se troviamo un deposito d’armi non possiamo entrare, possiamo solo avvisare l’esercito libanese, passare le coordinate e sperare che facciano il loro dovere». Sperare non è ironico. L’Unifil riceve ben pochi rapporti sulle attività compiute dopo l’inoltro di segnalazioni. Nessuno, inoltre, conosce l’affidabilità di un esercito formato da una larga componente sciita poco incline ad infastidire i fratelli di Hezbollah. Lo dimostra la franchezza con cui lo stesso generale Claudio Graziano, comandante di tutte le forze Unifil nel sud del Libano, ammette al Giornale di non aver ricevuto in 11 mesi una sola richiesta d’intervento da parte delle forze libanesi. A quelle incognite s’aggiunge l’elusiva personalità del capo di stato maggiore Michael Suleimani, nominato a suo tempo grazie alla benedizione del defunto presidente siriano Hafez Assad.
In queste condizioni la speranza è l’unica certezza rimasta ai soldati italiani. «Dopo la segnalazione la mia competenza è finita - spiega Cornacchia rimirando i suoi due bunker - forse i soldati libanesi li hanno ripuliti, forse ci avevano già pensato i miliziani di Hezbollah, forse l’esercito libanese non si è nemmeno mosso perché la zona è infestata di mine. Quindi magari il mio lavoro non è servito a niente. Di certo non lo so e non mi è consentito controllare». Tutta questa missione da 2500 uomini il cui costo sfiora già il miliardo di euro si basa, del resto, sulla regola del «guardare, ma non toccare». Per comprenderlo basta scendere da Yankee Delta 4 come la chiama la radio del nostro mezzo a Entry 1, il principale passaggio sul Litani affidato alla «supervisione» dei bersaglieri. Entry 1 è un semplice ponte su quel fiumiciattolo arido e pigro diventato la linea di demarcazione settentrionale della missione Unifil, la linea rossa oltre la quale, secondo la risoluzione 1701, non deve passare neppure un temperino. Per ora gli unici ad attirare l’attenzione delle solerti «sentinelle» libanesi sembrano gli italiani. «Una nostra colonna - ricorda il tenente colonnello Cornacchia - ha attraversato il ponte ed ha percorso qualche decina di metri alla ricerca di una piazzola dove girarsi, dopo poche ore il comandante libanese ha chiamato il nostro generale per denunciare uno “sconfinamento”». Che la fiducia non sia proprio reciproca lo si capisce immediatamente. Mentre le due Lince blindate e i tre Vm dei bersaglieri prendono posizione i soldati della 12ma brigata libanese li squadrano come se fossero fuoristrada carichi di miliziani di Hezbollah. Dopo l’“ispezione” dei militari iniziano i controlli delle “sentinelle” del Partito di Dio. Un ragazzotto con un filo di barba e un uomo sui trenta parcheggiano la loro vecchia Mercedes all’imbocco del sentiero sul Litani in cui sostano i mezzi italiani.

«Quelli di Hezbollah controllano ogni nostra mossa - spiega un caporal maggiore - se non sono in macchina ci seguono in moto, quando siamo vicini ai militari libanesi si materializzano in pochi minuti. Creda a me che ho fatto l’Irak, qui non facciamo niente, ma siamo già sotto tiro, se ci permettiamo una mossa di troppo finiamo come gli spagnoli, con un’autobomba tra le gambe e sei morti da piangere».

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