Cossiga contro Cossiga. È una fatica guardarsi allo specchio e aver paura di trovare ogni volta laltro. È una vita che provano a invecchiare insieme, come (...)
(...) rami di una stessa pianta. Non sempre in questi anni ci sono riusciti. Francesco Cossiga e il suo doppio, il gentiluomo e lex presidente, il Sardopardo e il democristiano, luomo che ha pianto per Moro e quello che ha detto sì alla ragion di Stato, il radioamatore «Iofcg» e il malinconico signore raggomitolato in una stanza buia che teme ogni secondo di essere spiato, seguito, intercettato. Cossiga e Kossiga. Uno dei due è di troppo.
Cè una proposta di legge costituzionale ferma in Senato. In calce cè la firma di Francesco Cossiga. Tutti quelli a cui è capitato di darci unocchiata restano per un attimo interdetti. Cosa vuole il senatore a vita Cossiga? Cancellare i senatori a vita. Tutti, lui e gli altri. Stop. Basta. Inutili. Vecchi. Qualche volta dannosi. Sembra un paradosso, ma questo è solo lultimo tassello della storia di Cossiga. Ed ha qualcosa di sublime. Cossiga che cancella Kossiga. Cossiga che uccide il suo doppio. E tutto torna.
Lantico rancore per quelli con la sua stessa faccia, per quel palcoscenico dove lui certo non è stato solo una comparsa. Quel mondo in cui si è incarnato, che lo ha portato oltre i confini della depressione, con le macchie sulla pelle e i capelli bianchi. Listinto, maledetto, di resettare tutto, di ammutinarsi e gettare a mare lui e quelli come lui, questa razza padrona e parassita con cui ha condiviso stagioni e memorie, lunghe come una cicatrice, come uno scarabocchio sullanima.
Non è la prima volta che ci prova. Quando si ritrovò al Quirinale restò muto per anni. Era il silenzio di un monaco che custodiva i peccati della terra. Era supplizio, perdono ed espiazione. Poi esplose e cominciò a parlare. Picconate feroci sui muri di quella prima Repubblica, sui vetri, sulle colonne, su tutto ciò che era stata la sua vita, in doppio petto blu e favori, clientele, tangenti. Sempre più in fondo, fino alle fondamenta di quella architettura mastodontica da secondo Novecento. E giù, colpi e parole, bestemmie e manrovesci, con gli occhi di una Cassandra che non è senza peccato e la rabbia di chi sa che quel vecchio e marcio mondo sta crollando. Bastano solo un altro paio di tangenti e poi verranno i giudici, che non sono i cavalieri dellapocalisse, ma un altro potere ancora più antico, senza democrazia, senza memoria, senza pudore. Cossiga, ripudiato il K, aveva visto la fine della sua specie. E la stava annunciando a colpi di piccone.
Questa volta è diverso. Non cè rabbia. Non cè furore. Cossiga sta scontando i suoi giorni. Sono lunghi mesi che ha abbandonato la piazza e la politica. Non commenta, non spiazza, non seduce. Non suggerisce, non spiega, non bacchetta. Quello che ha davanti è un tempo che si consuma troppo in fretta. Lidea di cancellarsi forse nasce da qui. E ancora una volta lo affascina il sapore, il dispetto, di portarsi dietro quelli come lui, i simulacri della sua stagione, gli antichi compagni di viaggio, quelli che con un po di disprezzo ha visto intascarsi la diaria da parlamentare anche quando non erano in aula. Si ricorda ancora quando Calderoli, quattro anni fa, gli rinfacciò questa cosa e lui, il senatore a vita, sembrò cadere dalle nuvole: «Non sapevo nulla di questo privilegio». Si sentì un ladro, si sentì inutile, si sentì un politico mummificato.
Non avrebbe comunque dovuto stupirsi. Quando era presidente della Repubblica cucinò uno scherzo perfido allamico Andreotti, una beffa consapevole. Lo nominò senatore a vita. Così sottoscrisse la parola fine sulla carriera eterna del divo. Lineffabile Giulio perse tutti i suoi clienti. Non aveva più voti. Non aveva più voti, feudi o terre. Lo azzannarono, senza risparmiargli nulla, prima i suoi, squali e squaletti, poi gli altri, lasciando che si infangasse con lodore di mafia.
Lidea di lasciare ai posteri un Senato senza padri della patria deve piacergli parecchio. Senatore K si accomodi, il suo secolo è finito. Cossiga ha spodestato il doppio.
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