E Vladimir scoprì «La gloria» del nulla

Andrea Caterini

Ogni romanzo, a ben vedere, è un romanzo di formazione. Ma ho sempre trovato l'espressione troppo semplicistica, insoddisfacente, con tutto il carico di retorica del passaggio, della linea d'ombra ma se avessero letto davvero Conrad, questi studiosi di lettere adagiati sulle convenzioni, avrebbero saputo cosa significhi, quell'ombra.

Conrad aveva capito che la domanda era più vertiginosa. Come raccontare l'immobilità, l'assenza di vita? Come raccontare nulla? La scoperta non è determinata dall'età. Si può arrivare alla vecchiaia senza comprendere che la sostanza di quel nulla è il momento di verità in cui la vita cambia. Quando nel 1932 pubblica La gloria (appena edito da Adelphi, trad. di Franca Pece, pagg. 246, euro 20), quinto dei nove romanzi scritti in lingua russa, Vladimir Nabokov sa bene che il suo romanzo potrebbe collocarsi in quella formula accademica. Ma è troppo intelligente e troppo furbo per cadere nella trappola. A lui, infatti, non bisogna credere del tutto: «Ogni grande scrittore è un imbroglione», diceva. Il suo giovane personaggio, Martin Edelweiss, è un esule russo. Con sua madre fugge dalla propria patria e sbarca in Europa quando la rivoluzione bolscevica sta mettendo a soqquadro il Paese dello zar. Il padre di Martin è morto, ma egli non ne soffre. Non si pensi a una forma di cinismo. Martin soffre perché non riesce a soffrire. Ci si aspetterebbe, da questo personaggio timido, pieno di indecisioni e dubbi, che si innamora dell'ammiccante e seducente Sonja (una Lolita allo stadio larvale), che prima o poi utilizzi la sua nuova condizione esistenziale (studia ormai a Cambridge) per diventare qualcosa o qualcuno (un filosofo, uno scienziato, uno scrittore). Nabokov ci illude di farci sentire dentro un altro Törless o Werther o Dedalus per poi sterzare bruscamente. Martin non diventerà nulla. Il suo viaggio e la sua formazione non finiranno mai. Il suo unico scopo è compiere un'impresa memorabile.

Vuole tornare clandestinamente in Russia per sole 24 ore, col rischio di essere fucilato. Un'impresa tanto grande quanto inutile. Ed è in quell'inutilità che Nabokov vuole «glorificare» il senso della vita. Non diventare adulti, ma sentire la luce della vita che ci esplode dentro.

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