«Ecco perché il jazz è da amare»

Tra i grandi del jazz, c’è Stefano Di Battista. C’era da ragazzo, quando ha iniziato a suonare il sassofono con il maestro Massimo Urbani. C’era in Francia, quando condivideva il palco con Michel Petrucciani ed Elvin Jones. E c’è stasera, ospite dell’Auditorium nell’ambito del Roma Jazz Festival, tra le leggende Lee Konitz e Maceo Parker. Classe e talento, per una musica ricca di vitalità.
Il suo nuovo album, «Trouble shootin’», trasmette grande energia e fa trasparire un’immutata passione per la musica. È il suo modo di essere musicista?
«Sì, ma è anche la caratteristica specifica di questo album, registrato in un solo giorno. È quasi un live. Volevo recuperare la tradizione dei dischi incisi per la Blue Note negli anni ’60. D’altronde la fredda perfezione e l’assenza di difetti possono anche annoiare».
Il titolo del disco si riferisce ai problemi della vita quotidiana. La sua musica è una risorsa per affrontarli sempre con il sorriso?
«Per la verità è il messaggio di errore che mi dà il computer quando si impalla. Ma è anche il mio modo per dire di non fare drammi davanti a piccoli imprevisti».
Nel disco ci sono omaggi più o meno espliciti a Ellington, Brubeck, Adderley. Il jazz attraverso la sua lente di ingrandimento.
«Non sono omaggi premeditati, nascono spontaneamente mentre scrivo. Mi vengono in mente colori che portano ad altri brani, ad altri artisti. Echoes of Brazil racconta il mio rapporto con Ivan Lins e con la musica brasiliana, che sa essere semplice pur essendo molto complicata».
Dopo un intero album dedicato a Roma, un omaggio a uno storico jazz club romano.
«L’Alexanderplatz è la culla del jazz romano, un posto divertente, caldo, dove a volte non riesci neanche a entrare. Un posto che a volte è lento, altre volte è veloce. Proprio come il brano che gli ho dedicato».
Ha avuto il piacere di suonare con vere leggende del jazz. Quanto è importante confrontarsi con queste grandi personalità, per costruire la propria?
«Il confronto è fondamentale. L’esperienza con Elvin Jones è uno dei più grandi regali che si possa fare a un jazzista. Mi ha insegnato ad avere una visione della musica molto ampia, senza schemi. Una musica di visioni, quasi di trance, come quella che creava con John Coltrane. Un giorno, in aereo, gli ho chiesto cosa fosse il jazz. Mi ha risposto di guardare fuori dal finestrino, ha indicato il sole e le nuvole e ha detto "quello è il jazz". Da lui ho imparato che è necessario studiare, ma che prima di tutto c’è bisogno dell’uomo, del sentimento. Posso parlare un italiano perfetto ma dire stupidaggini, oppure sbagliare i verbi e dire cose interessanti. Quincy Jones ed Herbie Hancock, invece, mi hanno insegnato l’insicurezza. Con loro ho capito che sono libero di sbagliare e di imparare dai miei errori».
Il jazz italiano è in buona salute?
«Il jazz italiano è sempre amato.

Ora è divulgato meglio anche negli ambiti più commerciali, a piccole dosi. I ragazzi però hanno l’occasione di scoprirlo. Anch’io l’ho scoperto per caso. Non lo capivo ma avevo i brividi. Mi sono innamorato e ora è la mia vita».

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