Ecco perché l’olimpiade è un affare... Ma non per lo sport

Se non è una scusa, poco ci manca. Lo sport non è in cima ai pensieri di chi vuole l’Olimpiade e, pur di ottenerla, è pronto a scendere a patti con il diavolo rappresentato dal cosiddetto “business plan”. Dove i conti finiscono sempre in rosso. I cittadini di Grenoble hanno finito di pagare l’anno scorso le tasse maggiorate per chiudere il buco dei Giochi invernali disputati nel 1968. Quelli di Montreal, che hanno ospitato l’Olimpiade estiva nel 1976, se la sono cavata con una imposta ventennale. Atene, che ha organizzato nel 2004 i Giochi destinati a Roma, si leccherà a lungo le ferite perché l’aumento del Pil al 3,2% non ha impedito al paese di indebitarsi oltre la soglia del 3% stabilita dal trattato di Maastricht. Il deficit è salito al 5,3%. In quell’occasione il premier Karamanlis si difese dicendo che «molte spese non erano state iscritte nel bilancio del precedente governo». Le banche sono quasi in default. È rimasta però tanta roba, come avrebbe detto un vecchio amministratore socialista. Atene ha un nuovo aeroporto e una metropolitana all’avanguardia. Migliorate le arterie stradali, autostradali e ferroviarie. È finalmente andato in porto il ponte Rio Antirio che collega il Peloponneso alla regione Sterea Ellada.
E ancora. Torino, ultima sede dei Giochi invernali prima di Vancouver, ha chiuso il bilancio in rosso di circa 30 milioni e fatica ad ammortizzare i costi di gestione (7 milioni l’anno a essere buoni) di impianti utilizzati a tempo pieno solo nei 15 giorni della manifestazione. Vedi l’Isozaki, riempito solo in occasione di un meeting islamico che non è proprio sportivo. La mala gestione fa il resto, basti pensare ai compensi pagati dal Comitato Organizzatore a una miriade di consulenti, tra cui società di Cipro e del Delaware. In Cina il prodotto interno lordo è aumentato del 12,2% grazie all’Olimpiade di Pechino 2008 che ha comportato 600mila nuovi posti di lavoro, ma anche un esborso di quasi 23 miliardi. L’Olimpiade londinese del 2012 prevede una spesa di oltre 12 miliardi, di cui il 65% coperto dalle casse del governo, l’11% dai contribuenti dell’area metropolitana e il resto da opere in project financing. Questo in teoria. In pratica il periodo di recessione aumenterà probabilmente la portata dell’intervento pubblico. E il governo, impegnato su ben altri fronti di natura sociale, teme forti ripercussioni al suo interno. È atteso, questo sì, un forte incremento del Pil, ma a quale prezzo? L’Olimpiade, al di là dell’evento sportivo fine a se stesso, risponde a criteri imprenditoriali, commerciali, urbanistici. Il resto è contorno.
In Italia la caccia alla candidatura olimpica del 2020 s’è chiusa un mese fa quando il presidente del Coni, Gianni Petrucci, ha rimandato al mittente la richiesta di Bari. «Irricevibile», l’aggettivo scelto nell’occasione. Restano quindi Venezia e Roma a contendersi l’opportunità di organizzare i Giochi in programma fra poco più di 10 anni. I sindaci delle due città, Alemanno e Cacciari, in rigoroso ordine alfabetico, sono tenuti a rispondere entro il 20 febbraio al questionario inviato dal Coni. In discussione undici punti fra i quali i più importanti riguardano le infrastrutture, compreso il villaggio destinato ad ospitare gli atleti, i siti sportivi e la sicurezza. A corredo le garanzie fornite dalle istituzioni territoriali e soprattutto dal governo. Toccherà successivamente alla Giunta, composta da 18 membri, dirimere il ballottaggio nella riunione che sarà posta in calendario presumibilmente ai primi di maggio. Ci sarà poi tempo fino al 2013 per convincere i membri del Cio a premiare la candidata italiana piuttosto che una sede del continente africano. Dove l’Olimpiade non è mai stata.
A livello nazionale – con buona pace di Cacciari, primo cittadino di Venezia, e di Galan, governatore uscente del Veneto – la capitale ha la vittoria in tasca perché in un recente passato ha perso ai rigori il ballottaggio con Atene e si ritrova con numerosi impianti già in essere a poca distanza gli uni dagli altri. Quanto di meglio auspica il Cio per riportare i Giochi a quella dimensione umana che proprio Roma esaltò nel 1960. Il progetto di Alemanno è pressoché fatto con il Foro Italico che ospiterà l’atletica leggera, le competizioni di nuoto, pallanuoto, tuffi e sincronizzato, il tennis e altro ancora. Al Flaminio si giocherà a rugby, Piazza di Siena ospiterà gli sport equestri, a Settebagni è previsto il nuovo impianto per canoa e canottaggio, il Circo Massimo farà da scenario alle gare di tiro con l’arco e beach-volley. Il basket sarà di scena nel nuovo palasport da 15mila spettatori in costruzione a Tor Vergata mentre il volley avrà a disposizione il PalaLottomatica all’Eur. E così via. Il cuore olimpico di Venezia sarà invece a Tessera. E Tessera, per gli stranieri, non è Venezia anche se è contigua e a soli 3 km dall’aeroporto con effetti positivi sugli spostamenti. È vero, come ha detto Cacciari, che neppure Londra ha pensato a impianti in Trafalgar Square. Ma è altrettanto vero che il Coni non vuol fare la figura di Don Chisciotte. Lo testimoniano le dichiarazioni di Petrucci all’indomani dell’ultimo incontro con Cacciari: «In questa corsa si parte alla pari. Ma quello che già esiste, a livello d’impiantistica e non solo, ha il suo peso. Il tempo a disposizione non è molto. Così come ho detto che in Italia è inutile che ognuno si candidi, al sindaco di Venezia ho ribadito che il Coni in questa gara partecipa per vincere.

Come dicevano i filosofi, la realtà effettuale è quella che è, non quella che vorresti fosse». In caso di successo, il presidente del Coni ricoprirà probabilmente un ruolo di prestigio nel Comitato Organizzatore. Chi meglio di lui?

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