«Siamo passati da una crescita impetuosa all'orlo della recessione in Europa e negli Usa. Siamo nel momento di crisi più difficile e di incertezza più grande dal dopoguerra». Vox clamantis in deserto, il commissario europeo all'Economia Paolo Gentiloni ha detto ieri ciò che le banche centrali si rifiutano di dire. Quella parola lì, «recessione», proprio non vogliono pronunciarla. Troppo impegnati, i Fonzie della politica monetaria, a ingaggiar una singolare tenzone col caro-prezzi a colpi di rialzi dei tassi. La Fed, pur mettendo in canna giri di vite al costo del denaro fino a tutto il 2013, è ancora convinta di preservare la crescita al punto di non accostare mai, nelle sue previsioni, il segno meno al Pil da qui al 2024. Stessa musica alla Bce, dove il Bollettino mensile si limita a prospettare solo una stagnazione «nel prosieguo dell'anno e nel primo trimestre del 2023». Profezie da Frate Indovino, se si riveleranno come quelle sull'inflazione «temporanea», ma sicuramente buone per sostenere la tesi di quanto sia necessario proseguire nell'opera di irrigidimento del credito. «Presumo che il consiglio aumenterà ulteriormente i tassi nella sua prossima riunione - ha spiegato Isabel Schnabel, tra i falchi all'interno del board dell'Eurotower - Al momento, non posso dire quanto sarà ampio questo rialzo». I trader hanno già messo in conto strette pari a 225 punti base che proietterebbero i tassi, entro giugno, al 3% dall'attuale 0,75 per cento.
La repressione dell'inflazione è la stella polare che sta guidando i banchieri centrali. Dietro al pifferaio Jerome Powell si stanno accodando un po' tutti (91 gli strappi quest'anno da parte dei 23 principali istituti di emissione mondiali), seppur con qualche eccezione. La Turchia di Erdogan continua per esempio a muoversi in direzione ostinata e contraria: nonostante un carovita all'80%, la Tcmb ha tagliato ieri dell'1% il costo del denaro, dal 12 all'11%. La Bank of Japan ha invece lasciato invariata la politica monetaria (-0,1% i tassi), ma la mossa da colomba ha talmente indebolito lo yen da costringere Tokyo a intervenire sul mercato valutario per la prima volta dalla fine degli anni '90. Per il resto, è tutto un fiorire di fresche strette: dall'Inghilterra alla Svizzera, dalla Norvegia alla Svezia, dall'Indonesia alle Filippine. Ci si protegge anche per non importare altra inflazione attraverso i livelli di cambio rispetto al dollaro (verso il quale l'euro è scivolato ieri ai minimi da 20 anni), ma le economie emergenti restano le più vulnerabili ai rischi di default proprio a causa della forza del biglietto verde.
È un'altra variabile di cui pochi sembrano pesare le conseguenze su un'economia globale già stressata dal Covid e dalla folle giostra dei prezzi. Non certo la Fed che combatte la propria battaglia senza ascoltare chi, come JP Morgan, avverte come il caro-mutui stia facendo salire alle stelle il costo degli affitti, il cui peso sul paniere dell'inflazione è pari al 40%. Presto, sostiene la banca d'affari, questo diventerà un nodo politico tale da imporre a Powell un dietrofront. Per ora, però, c'è da chiedersi quanto l'inflazione riuscirà a mitigare l'aumento del debito pubblico generato dai più elevati tassi d'interesse da pagare.
La sostenibilità del debito «dipende dalla crescita economia» e «un ruolo significativo lo gioca il Next Generation Eu», ha risposto Schnabel a chi le chiedeva dell'alto livello d'indebitamento dell'Italia, uno dei problemi che il prossimo governo dovrà affrontare.
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