Titolo: «Sasha, l'ingegnere diventato cecchino». Catenaccio: «Di stanza a Pokrovsk, è tra i più abili: ha ucciso 147 russi. Ripensamenti? Guai se ne avessi».
Lo confessiamo. Ci ha colpito molto l'intervista uscita ieri su un grande giornale a un tiratore scelto ucraino che ha il record di nemici abbattuti. Sia chiaro: firmato da un eccellente inviato di guerra, è un ottimo servizio, di quelli che chiunque di noi sogna di portare a casa. Dal punto di vista giornalistico, chapeau.
Ma dal punto di vista umano? Solo noi ci chiediamo abbiamo visto in quella pagina, nei titoli, nel rilancio online e sui social, un'eccitazione compiaciuta per un uomo che ha ucciso altri 147 «uomini», prima che «nemici».
Se questo è un eroe.
Domanda. Non rischiamo, celebrando così la guerra, in un capovolgimento spettrale dei sentimenti, di abituarci all'orrore? Di anestetizzarci alla morte, come una partita a Call of Duty? Va bene, siamo retorici. Ma resta qualcosa di disturbante. «Ci vuole pazienza», dice il cecchino. Come il cacciatore che aspetta il cinghiale.
E poi.
Lo stesso giornale che si fa scrupoli nell'onorare i caduti di El Alamein inneggia a un cecchino con tanto di bavaglio raffigurante il teschio (ma lo sanno che è l'emblema degli Arditi e che se postano la foto su Facebook si ritrovano censurati per apologia di fascismo?).Ma soprattutto: ci va bene perché i 147 morti sono di quella parte. Ma se il cecchino fosse russo, e avesse ucciso 147 ucraini? Come ci sentiremmo?
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