Arriva l'ondata di tagli: cosa succede nelle imprese italiane

Un sondaggio commissionato da Confesercenti restituisce un’immagine lapidaria: le Pmi crollano sotto il peso del caro energie. Ecco perché è un dato importante

Arriva l'ondata di tagli: cosa succede nelle imprese italiane

La notizia è questa: secondo Confesercenti il 36% delle Piccole e medie imprese italiane (Pmi) prevede di alzare i prezzi di vendita, il 26% è propensa a limitare gli orari di apertura, il 18% sta valutando tagli ai dipendenti e il 6% è incline a sospendere l’attività, anche in virtù della bassa stagione che, per sua natura, è meno redditizia.

Lo studio, svolto da Swg su un campione di aziende con meno di 50 dipendenti che operano nell’artigianato, nel turismo e nel commercio, disegna un quadro che va oltre i numeri e le percentuali anche se sono dati che fanno riflettere come, per esempio, quel 13% di Pmi che intende avvalersi dei finanziamenti garantiti introdotti dal decreto Aiuti-ter per potere pagare le bollette energetiche.

Tutto questo a causa del caro energie che sta paralizzando l’Italia costringendo alla chiusura attività commerciali di varia natura. Chiusure anomale, siano queste temporanee e definitive, non indotte dal business ma dall’insostenibilità delle materie prime.

Come leggere questi dati

Le Pmi, per definizione, sono quelle con meno di 250 dipendenti e un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro. Al di là del titolo che Confesercenti ha dato alla propria ricerca, questa è circoscritta alle piccole imprese, ossia quelle che hanno meno di 50 dipendenti e un fatturato fino a 10 milioni di euro. A queste, sempre restando fedeli alle definizioni ufficiali, si interpolano le microimprese, che hanno meno di 10 dipendenti e un fatturato inferiore ai 2 milioni di euro.

L’Osservatorio del Politecnico di Milano nel 2020 ha censito 4,4 milioni di imprese attive in Italia, sottolineando l’importanza delle microimprese, che sono il 95,05% del totale (4,182 milioni). Questo significa che l’economia del Paese ha una colonna vertebrale fondata su queste aziende e metterle in crisi corrisponde con il minare un palazzo alle fondamenta, trascinando verso terra sia le aziende più grosse (le Pmi) sia quelle grandi che, in Italia, sono lo 0,09% del totale.

Se allarghiamo il focus alle Pmi propriamente dette, queste rappresentano il 4,86% del tessuto imprenditoriale italiano e, insieme, impiegano il 33% dei lavoratori, generando il 41% del fatturato totale del sistema Paese. Diventa quindi chiaro che abbandonare a loro stesse le aziende con meno di 50 dipendenti, corrisponde con lo sgretolare l’economia italiana.

Una nuova definizione di rischio di impresa

Per gli imprenditori il rischio di impresa è pane quotidiano. Clienti che tardano a pagare, fornitori che tardano a consegnare, nuove norme o leggi che li mettono in condizione di rivedere parte delle proprie politiche aziendali e molto altro ancora. Sono tutte cose alle quali si può porre rimedio e che lasciano all’imprenditore stesso un margine di manovra. Contro il caro energie c’è poco da fare, se non smontare parte della propria attività e ricorrere a crediti straordinari per fare fronte a debiti altrettanto straordinari.

Sempre secondo lo studio Confesercenti – gli imprenditori chiedono moratorie sui finanziamenti, pace fiscale, riduzione del cuneo fiscale e dell’Irpef.

Queto dimostra quanto ci si trovi all’interno di un circolo vizioso: per sopravvivere gli imprenditori hanno bisogno di interventi da parte dello Stato al quale chiedono di essere meno pretenzioso nei loro confronti. Versare meno soldi allo Stato e pretendere che questo dia più fondi al tessuto imprenditoriale è una negazione in termini ma rende molto bene l’insostenibilità del momento che stiamo attraversando.

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