Generali bocciata da S&P solo perché ha sede in Italia

Standard & Poor's taglia il rating in linea con quello del debito sovrano. Ma la salute di un gruppo privato è tutta un'altra cosa. Anche l'Eni nel mirino

L'ingresso della storica sede triestina delle Assicurazioni Generali
L'ingresso della storica sede triestina delle Assicurazioni Generali

Le più importanti società italiane, come quelle di tutto il mondo, pagano le agenzie di rating per farsi dare una pagella. Riempiendo le caselle con i nomi propri, possiamo con tranquillità dire che le Generali (forse la più importante e solida società finanziaria italiana) tira fuori dal suo portafoglio ogni anno un milione di euro per farsi dare un voto da Standard&Poor's (la fattura riguarda non solo le Generali spa, ma anche le sue controllate in giro per il mondo). Lo hanno fatto anche quest'anno. Mario Greco, il leader da un paio di anni del Leone triestino, ci tiene particolarmente alla sua reputazione. I numeri di Borsa gli danno ragione.

È dunque comprensibile che quando un paio di giorni fa ha visto l'annuncio di S&P sia saltato sulla sedia. La famosa agenzia di rating ha infatti ridotto il suo voto in pagella. Il motivo non è da ricercarsi nella gestione del nuovo management, ma semplicemente nel fatto che le Generali hanno la sede legale in Italia e dunque per gli analisti anglosassoni non possono beccarsi un voto di troppo superiore a quello della Repubblica dove risiedono. S&P lo dice esplicitamente: qualsiasi società italiana non può prendere un voto superiore ai Btp (cioè al titolo più sicuro emesso dal Tesoro), o meglio il voto può essere superiore al massimo di due livelli. E siccome l'Italia è là giù in fondo, anche Generali deve adeguarsi. Così automaticamente. Il merito del credito rischia di diventare Greco di nome e di fatto.

La cosa non costerà in fondo molto alle Generali. L'universo mondo conosce la sua solidità e i suoi parametri di solvibilità (secondo le rigide normative europee) sono più che in regola. La raccolta sul mercato di risorse fresche non dovrebbe diventare più onerosa. Ci potrebbero essere dei fastidi di tipo commerciale: qualcuno potrebbe aver inserito nei propri statuti o regolamenti meccanismi automatici per non fare affari con aziende che hanno pagelle con voti analoghi a quelli di Generali. Tutti sanno che circa il 70% delle entrate del Leone sono realizzate all'estero e che si tratta di una multinazionale, solo in parte legata ai destini dell'Italia. Ciò non toglie che un certo rischio Italia ci sia per una compagnia assicurativa come Generali. In pancia ha circa 50 miliardi di titoli di Stato italiani (su 400 miliardi di attivi) e una sua ipotetica svalutazione (alla greca) del 20% comporterebbe il dimezzamento del suo attuale patrimonio netto (che è pari a poco più di 20 miliardi): uno scenario improbabile, ma devastante. Un rischio che però non si riesce a capire come si possa valutare con un automatismo. Si aprono dunque due questioni sostanziali.

La prima riguarda il nostro futuro di giornalisti. Potremmo in massa trasferirci a lavorare nelle agenzie di rating. Ci occuperemmo solo dell'Italia. Prenderemmo un team di bravi ragionieri che analizzino e passino giornate a guardare i bilanci. E poi casseremmo i giudizi troppo positivi, banalmente applicando il meccanismo automatico per cui non si può avere un voto migliore dell'Italia. Insomma vogliamo dire che anche un asino, come noi, potrebbe dare le pagelle con questo criterio. Perché Greco deve pagare una società di rating per farsi dire che la sua azienda merita 10, ma siccome gioca a Trieste, cioè in Italia, non può avere più di sei? Già il fatto che le aziende si paghino la pagella fa discutere da anni. Ma poi sapere che il giudizio è comunque sottoposto a questo pregiudizio nazionale, fa venire i brividi.

La seconda questione è ben più seria. In queste ore si registrano le voci di una possibile emigrazione della Ferrari a Londra. La Fiat, ora Fca, si è già duplicata tra Amsterdam e Regno Unito. Molte società del risparmio gestito hanno strutture complesse in giro per l'Europa. L'Italia ha i suoi difettucci: una tassazione elevatissima e una burocrazia da terzo mondo. Ma il sospetto che alcune istituzioni finanziarie internazionali ci marcino e abbiano una certa predisposizione a metterci nei pasticci, sta emergendo sempre con maggiore forza. Se il solo fatto di risiedere in Italia, rappresenta un handicap sui mercati finanziari, nonostante si abbiano dei bilanci e dei patrimoni solidissimi come nel caso di Generali, l'incentivo ad abbandonare il Belpaese è forte. E per una volta non dipende solo dalle nostre inefficienze.

P.s.: L'ad di Eni, Claudio Descalzi, ha ribadito questa settimana come il prezzo di pareggio per il petrolio made in Eni sia pari a 45 dollari. Un livello piuttosto basso rispetto ai concorrenti e che dunque ci permette di guardare con relativa tranquillità il calo del prezzo all'ingrosso dell'oro nero. Tre big come Shell, Total ed Exxon hanno prezzi di equilibrio più alti e dunque soffriranno prima dell'Eni. Il nostro prezzo è così basso perché negli ultimi dieci anni abbiamo fatto meglio degli altri i compiti a casa. L'Eni non ha comprato scoperte di petrolio (come si dice in gergo) ma ha esplorato in prima persona. L'attività esplorativa è un grande rischio, ma ha dato grandi soddisfazioni: abbiamo scoperto circa tre volte in più di quanto abbiamo prodotto. Un record.

Che rende oggi l'Eni più serena delle sue sorelle, nonostante il valore della materia prima sia crollato. Peccato che un agenzia di rating tra poco ci dirà che il suo merito del credito è inferiore a quello dei competitor con sedi all'estero.

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