I tedeschi salvatori dell’euro? Macché, l’Italia spende di più

Il paradosso: con la Spagna siamo il Paese che contribuisce con più soldi al fondo salva Stati. Eppure in Germania sono convinti del contrario: il 95% ha paura di fallire per i troppi aiuti

Erik Nielsen è forse il più cono­sci­uto tra gli analisti economici eu­ropei. Nato in Danimarca, lavo­ra a Londra per una banca italiana (Unicredit) e nei giorni scorsi ha inviato ai suoi clienti alcuni da­ti del Fondo Monetario internazionale che pren­dono in esame gli aiuti stanziati per salvare i Paesi in difficoltà. «Se si leggono i giornali sembra che a pagare tutto siano i tedeschi», spiega. «E invece non è affatto così». Il paradosso è che ad assumere gli oneri maggiori in rap­porto al Pil sono proprio due tra gli Stati a rischio: Italia e Spagna. Sono loro a versare al fondo Efsf, quello incaricato di sostenere le capitali in affanno, le som­me proporzionalmente maggiori (vengono cal­colate in rapporto alla quota posseduta nella Banca centrale europea). Quasi il 4% del reddito pro­dotto ogni anno. Solo in terza battuta arriva la Germania. Eppu­re, se si ascoltano i commenti e le voci che arrivano dall’opinione pubblica te­desca pare che il bilancio di Ber­lino stia per essere travolto dal­la montagna di soldi versati alle economie sull’orlo dell’abisso. Un canale televisivo, N-Tv, ha organizzato nei giorni scorsi un sondaggio tra i suoi ascoltatori: pensate che potremmo falli­re per i troppi aiuti al Sud? Più del 95% ha risposto di sì.
Anche questo è uno dei frutti della crisi. Ognuno è tor­nato a presidiare il proprio orticello, di­menticando i vantag­gi ricevuti dall’Europa e ri­vendicando i torti, veri o pre­sunti, subiti. Gli italiani trascu­rano il bonus da centinaia di mi­liardi che con l’euro hanno avu­to a disposizione (e buttato dal­la finestra) grazie alla conver­genza dei tassi di interesse a li­velli tedeschi. I cugini di Germa­nia non citano quasi mai i van­taggi portati a casa, se non altro grazie alla possibilità di espor­tare di più.
Ora a peggiorare le cose c’è un fattore in più: anche i tede­schi iniziano ad avere paura. A lungo hanno vissuto in una spe­cie di bolla dorata. Il mondo crollava e loro, grazie alla ri­strutturazione del sistema pro­duttivo avviata dopo il 2000 e al­la disciplina con cui hanno con­trollato il livello degli stipendi (per 10 anni i consumi non so­no di fatto cresciuti), continua­vano a vendere e guadagnare. Adesso capiscono di non poter­cela più fare. La fiducia delle im­prese è crollata come ai tempi del fallimento di Lehman Brothers. Tre mesi fa solo il 32% dei cittadini temeva un peggio­ramento della situazione eco­nomica, ora la quota è al 56%. I centri studi fanno i conti di quanto costerebbe al Paese il crac dell’euro. La banca svizze­ra Ubs ha calcolato che il nuovo marco si rivaluterebbe del 40%. Nessuna azienda potrebbe più esportare nell’area dell’ormai ex moneta unica. Non solo. At­traverso il sistema di pagamen­ti europeo Target2 gli altri Paesi devono a banche e operatori te­deschi oltre 700 miliardi. In ca­so di fine dell’euro una buona parte di questi soldi andrebbe
perduta, innescando un’onda­ta di chiusure e fallimenti. An­che per Berlino sarebbe l’apoca­lisse.
Non è un caso che di fronte a questo scenario l’associazione delle banche e le grandi impre­se abbiano a gran voce invocato una difesa a oltranza dell’euro, con l’adozione di provvedimen­ti più incisivi. Un gruppo di eco­nomisti di primo piano si è fatto sentire per chiedere che il go­verno metta in campo tutto il suo peso nell’appoggiare Mario Draghii e la Bce. Angela Me­rkel e il suo ministro delle Fi­nanze Schaeuble sem­brano aver preso al­meno parzialmente le distanze dalle po­sizioni più rigori­ste della Bunde­sbank.
Eppure, il nervosi­smo tedesco e il clima da ultima spiaggia che si re­spira in Europa hanno tutt’al­tro che smontato i rigoristi con­trari all’aiuto dei Paesi in diffi­coltà. Sfidando tutti i luoghi co­muni Wolfgang Muenchau, eco­nomista e commentatore del
Fi­nancial Times , ha accusato i te­deschi di irrazionalità: voglio­no limitare al minimo il proprio impegno finanziario e allo stes­so tempo non vogliono la fine dell’euro. Come è possibile? La realtà è che giorno dopo giorno sembra piuttosto crescere il par­tito disposto ad accettare uno tsunami monetario pur di met­tere fine all’attuale impasse. «La situazione si deteriora sem­pre più. Meglio una fine spaven­tosa che uno spavento senza fi­ne »,è diventata la parola d’ordi­ne di chi vuol tornare al marco. Il grande nemico diquest’ulti­mi è Mario Draghi, considerato l’unico ad avere in mano l’arma per salvare la moneta comune. L’italiano è da qualche settima­na un osservato speciale. Fino a poco tempo fa era considerato un tedesco ad honorem. Ora le cose sono cambiate. «Mr. Dra­ghi, basta soldi tedeschi agli Sta­ti falliti», diceva il titolo di ieri della Bild , che ha minacciato di chiedere la restituzione del cap­pello da ufficiale prussiano che gli aveva regalato solo pochi me­si fa. Anche il compassato Der Spiegel non sembra più ben di­sposto e nell’ultimo numero ri­ferisce che Mr Coolness ,
come era so­prannomina­to per la sua glaciale im­perturbabili­tà, non è più lui: nel corso di una discus­sione con i colleghi è ar­rivato ad alza­re la voce.
Ma ormai è tutta l’azione della Banca centrale eu­ropea a esse­re nel miri­no. La lega dei contri­buenti, lob­by potente e ascoltata dal mondo politi­co, minaccia azioni legali di fronte ai tri­bunali tede­schi ed euro­pei. Il suo mantra: ogni aiuto incon­dizionato ai Paesi in diffi­coltà è la vio­lazione di uno dei prin­cipi di base degli Stati moderni,
no taxation without re­p resenta­tion , perché limita la so­vranità dei Parlamenti nell’imporre nuovi oneri ai cittadini. Franz Schaef­fler, esperto di politica fi­nanziaria del­la Fdp, il par­tito liberale al governo, dalle colon­ne di Handelsblatt , primo quo­tidiano economico del Paese, ha lanciato l’insinuazione più grave: «La Bce sta diventando uno stato nello stato, libera da ogni vincolo giuridico e politi­co. Agisce in uno spazio senza legge e la sua azione non è più orientata alla stabilità dei prez­zi ma agli interessi politici e na­zionali del suo ceto dirigente».

Per SuperMario è la madre di tutte le accuse: essersi infilato nel cuore del potere europeo per tramare a favore degli infi­di italiani. Non meraviglia che ieri abbia dovuto piegarsi di fronte ai mastini della Bunde­sbank.

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