Agonizzanti attorno ai 30 dollari nel gennaio 2014, un paio d'anni dopo i prezzi del petrolio avevano riconquistato quota 100, a conferma che la storia del barile è fatta di discese ardite e di altrettanto rapide risalite. Ora, lo stesso andamento ascendente sembra replicarsi. Donald Trump, con la sua invasività su questioni geo-politiche ed economiche delicatissime, ci sta mettendo lo zampino sui destini dell'oro nero. Rottamando l'accordo sul nucleare iraniano e imponendo sanzioni a Teheran, l'inquilino della Casa Bianca ha contribuito a riportare le quotazioni del Brent vicino agli 80 dollari e quelle del Wti sopra i 70. È un dejà vu: Obama aveva fatto lo stesso con il regime degli ayatollah, e dal mercato era sparito circa un milione di barili al giorno.
Ora la faccenda è resa però più complicata dalla volontà espressa dalla Cina di non rispettare alcun embargo e dal tentativo dell'Europa di far recedere il tycoon dai suoi propositi. Ma il rischio di un surriscaldamento del greggio rimane, nonostante l'Opec si sia dichiarata ieri pronta a colmare la possibile flessione dell'export iraniano. Del resto, sullo scenario petrolifero incombe anche il peso ingombrante della crisi venezuelana, dalla quale può derivare un buco produttivo di 500mila barili al giorno nei prossimi mesi. Bank of America ipotizza che il prezzo del greggio potrebbe toccare i 100 dollari nel secondo semestre 2019, dopo aver raggiunto già i 90 dollari nella prima parte dell'anno prossimo. Si tratta di livelli non privi di conseguenze negative. La prima, e la più vistosa, sarebbe un rincaro dei carburanti. È un effetto che gli automobilisti italiani stanno già sperimentando. A causa dell'aumento delle quotazioni petrolifere, la benzina è passata da una media di 1,546 euro il litro da inizio anno a 1,605, mentre il gasolio è salito da 1,397 a 1,470 euro. E sul pieno, più salato, incombono i possibili aumenti di Iva e accise se non saranno disinnescate le clausole di salvaguardia.
È comunque evidente che un ruolo determinante sarà recitato dai rapporti di cambio. Un conto è avere l'euro a 1,10 sul dollaro, un altro a 1,20 o, peggio, sopra 1,30. Nel primo caso sarebbe attenuato l'impatto sull'inflazione e, di conseguenza, anche sul Pil dal momento che i consumi e gli investimenti subirebbero conseguenze minori. Diversamente, un troppo rapido aumento dell'inflazione avrebbe non solo ripercussioni sul ciclo economico, ma rischierebbe di complicare il processo di normalizzazione della politica monetaria da parte della Bce. Soprattutto, una volta terminato il piano di acquisto titoli, la pianificazione dei rialzi dei tassi d'interesse.
C'è però un'altra variabile da considerare: all'Opec e ai Paesi esterni al Cartello conviene un barile a 100 dollari? Secondo molti analisti, no.
I 70-80 dollari - osservano - sono un range equilibrato: permette ai produttori di intascare buoni profitti (anche a quelli dello shale oil), è sostenibile dalle industrie mondiali e non provoca scosse ai prezzi dei beni di consumo.
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