Uber e Lyft perdono in tribunale

Gli autisti sono dipendenti. Modelli di business a rischio

Uber e Lyft perdono in tribunale

Non l'ha presa bene il ceo di Uber, Dara Khosrowshahi. Messo spalle al muro dalla sentenza che obbliga l'azienda di ride hailing (il servizio di vettura con autista su chiamata via app) - così come la rivale Lyft - di assumere i suoi driver in quanto non assimilabili ad appaltatori indipendenti, l'ad iraniano-americano ha minacciato di chiudere l'attività in California fino a novembre se il suo ricorso non sarà accolto. Lì, proprio dove Uber ha messo radici, nello Stato più grande del Paese che con Los Angeles e San Francisco ha finora assicurato al gruppo uno dei mercati più fiorenti a livello mondiale.

La minaccia viene motivata con una cifra: se l'azienda dovesse ottemperare al verdetto della Corte californiana, l'aggravio sui conti si aggirerebbe sui 500 milioni dollari l'anno. In alternativa, i prezzi del servizio dovrebbero subire un super-rincaro del 111%. Di fatto, mettere regolarmente a libro paga i conducenti renderebbe l'attività non competitiva e sarebbe una pietra tombale su bilanci che in tre anni hanno accumulato perdite per oltre 16 miliardi. Inoltre, sempre secondo Uber, sono i driver a voler lavorare senza essere inquadrati come dipendenti.

Diverso il parere dei sindacati: il sistema escogitato dal gigante del ride hailing non dà la garanzia di un salario minimo, né la retribuzione per malattia e i sussidi di disoccupazione, e neppure alcuni benefit come gli straordinari. «Se il tribunale non ci ripensa, allora in California, è difficile credere che saremo in grado di passare rapidamente dal nostro modello al lavoro a tempo pieno», ha spiegato Khosrowshahi.

Che, a detta di alcuni analisti, potrebbe aver adottato la tattica partenopea del «facite a faccia feroce» ventilando la serrata, nel tentativo di trovare una mediazione Nell'immediato, il rischio è però che decine di migliaia di autisti vengano lasciati a casa.

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