EDWARD WALLANT Il romanzo perduto di un genio postumo

Edward Lewis Wallant (1926-62) iniziò a scrivere a trent’anni. Morì appena sei anni più tardi, nel ’62, per la rottura di un aneurisma. Fece in tempo a vedersi pubblicati due romanzi (The human season e The pawnbroker) e a lasciarne altrettanti, inediti, ai posteri. Si sa, però, che questi ultimi tendono a essere generalmente distratti: perché perdere tempo con uno scrittore ebreo-americano prematuramente scomparso, quando si hanno a disposizione Bellow, Roth, Mailer e Malamud? Il pubblico e i critici americani si dimenticarono presto di lui.
Per i lettori italiani, Wallant è un oggetto ancor più misterioso. The pawnbroker fu pubblicato nel 1967 da Garzanti come L’uomo del banco dei pegni; tre anni prima ne era stato tratto un film di discreto successo con Rod Steiger, per la regia di Sidney Lumet, dove per la prima volta Hollywood entrava in un campo di concentramento nazista, attraverso i ricordi di un sopravvissuto che non riesce a scacciare i propri fantasmi. Dopo anni di purgatorio, il nome di Wallant è ricomparso alla ribalta letteraria nel 2003, quando l’inedito The Tenants of Moonbloom è finalmente uscito con una prefazione di Dave Eggers, il sedicente «formidabile genio» e direttore della rivista di culto McSweeney’s. Il mio scarso amore per Eggers mi ha messo sulla difensiva quando ho iniziato a leggere la traduzione italiana del libro di Wallant (in uscita per Baldini Castoldi Dalai con il titolo Gli inquilini di Moonbloom). Ma già dalle prime pagine, mi sono reso conto che ciò che avevo fra le mani era un ottimo romanzo, miracolosamente scampato a quarant’anni di oblio.
Il tour de force di Wallant ribadisce il particolare talento di cui i moderni scrittori ebreo-americani dispongono nel creare personaggi indimenticabili, laddove i gentili (si pensi a Barth, a Pynchon, a De Lillo, giù giù fino a Volmann) sono piuttosto dei costruttori di complicate macchine narrative, all’interno delle quali i «caratteri» finiscono per essere incidentali. In questo senso, Norman Moonbloom - il protagonista del romanzo - se non è forse degno di sedersi a tavola con Augie March, Alex Portnoy e la Signorina Cuorinfranti, può essere considerato un loro affascinante fratello minore. Già nel primo capitolo lo troviamo «frustato dal filo del telefono (...), vittima della sua tendenza alla goffaggine». È nel suo ufficio, tra mobili-archivio ammaccati, dietro una scrivania di vernice che si squama «come pelle morta». Sul vetro si può leggere: «IMMOBILIARE I. MOONBLOOM - NORMAN MOONBLOOM, AGENTE»; una scritta a caratteri cubitali, neri, che sembra racchiudere il senso di tutto il libro: quella “i” puntata sta infatti, per Irwin, il fratello per cui Norman è costretto a lavorare. Nella conversazione telefonica fra i due, che apre il romanzo, sentiamo già tutto il peso della differenza fra i due Moonbloom: «Dio sa se io posso pensare a sciocchezze simili», si lamenta Irwin dopo che Norman gli ha appena fatto il punto della situazione riguardo a uno stabile sulla 13ª Strada (topi ovunque, gabinetti intasati, ringhiere pencolanti). «A te tocca soltanto la responsabilità di quelle quattro case... riscuotere gli affitti, curare pochi aspetti amministrativi», prosegue Irwin. «Io invece sono al centro di transazioni molto più complesse... non posso certo rubare tempo a quelle cose, che sono molto più importanti, per occuparmi di scarafaggi e di latrine, ti pare, Norm?».
Su e giù per l’Upper West Side, a sollecitare inquilini morosi e a ricevere le loro confessioni: ecco la giornata di Norman Moonbloom. Arnold e Betty Jacoby gli offrono una scatoletta di minestra Campbell, del caffè istantaneo e una scipita commedia matrimoniale. Marvin Schoenbrun lo fa accomodare mentre si tampona una ferita sulla guancia appena rasata e si lamenta dell’impianto elettrico antiquato. Stan Katz, trombettista jazz che convive con un batterista nero omosessuale, lo riceve con un sorriso «dipinto con abili ombreggiature a trompe-l’oeil», in un ambiente pregno dell’odore di birra rovesciata e portacenere non svuotati: «una bacchetta di batteria si ergeva da una bottiglia di whisky vuota come l’albero di una nave, incappucciata da un profilattico». Il signor Hauser non accetta di dover corrispondere l’affitto ogni settimana, mentre la moglie si mostra più accondiscendente, fasciata in un vestito ornato di perline che le dà un’aria vagamente pornografica. L’ultracentenario Karloff - «una gigantesca creatura estinta» - ha trasformato il suo appartamento in un bidone dell’immondizia e osserva lo spettacolo tracannando shnapps. Il signor Basellecci si lancia in uno sgangherato elogio del caffè italiano prima di mostrare a Norman il muro gonfio e imputridito della stanza da bagno: «Mi siedo lì e guardo quell’orrenda cosa gonfia. Non riesco a rilassarmi. Il mio sfintere è paralizzato dal terrore. Fra poco mi ammalerò sul serio, e allora vi chiamerò al tribunale. Lo dovete aggiustare!».
Del campionario di inquilini collezionati dall’Immobilare I. Moonbloom fanno parte anche un ragazzo cinese che racconta a Norman nei dettagli le proprie avventure erotiche, un insegnante di inglese che declama versi di Eliot - «quel Vecchio Possum!» -, un clown che fa l’ambulante sui treni che partono dalla Grand Central Station, un boxeur che studia arte drammatica, uno «gnomo ebreo» che vive nel sottotetto... Tutti questi personaggi sembrano delle marionette caricate a molla: entrano in funzione soltanto all’arrivo dell’agente, gli mostrano scarafaggi, lavandini otturati ma anche le miserie più intime e i sogni più privati. Raramente le visite di Norman si concludono con il contante nella tasca dei calzoni; è costretto a dare molto più di quanto riceve: a dare vita, appunto, e per il solo fatto di star lì ad ascoltare. Il premio è un’afflizione crescente (se si tralascia l’inevitabile avventura con una giovane inquilina): chi è, lui, se non uno di loro? La sua solitudine si riflette nei caseggiati posseduti dal fratello come in una miriade di specchi, sui quali gli inquilini ricambiano il suo sguardo. Come spiega Eggers nella prefazione al romanzo, «a poco a poco Moonbloom si piega sotto il peso delle necessità degli abitanti degli stabili. La pressione lo raggiunge e, mentre tenta di non eccedere i limiti del risicato budget del fratello e implora la pazienza generale (...) deve decidere se davvero, come ripete spesso, lui è “solo un agente”, o ha una personale responsabilità nel riscatto, sia pur minimo, delle vite dei suoi residenti». Deciderà, infine, di cimentarsi in una personalissima crociata; a proprie spese: «A seguito di un’altra telefonataccia di Irwin, Norman ritirò duemila dollari dal suo conto personale e spedì al suo datore di lavoro un assegno vistato per quella cifra. (...) Per febbraio aveva completato i tre quarti dei lavori previsti per gli stabili. Aveva usato un lago di vernice, una montagnetta di cemento, e abbastanza filo per andare e tornare da New York alla sua città natale». Quando un inquilino osserva: “Tu stai cambiando, paparino. Cos’hai?”, Norman gli risponde: «Cambiando? Oppure diventando? (...) Non so che cosa sia, ma sono contento, praticamente felice”».
Finite le duecentosettanta pagine del romanzo, condividiamo gli stessi sentimenti del suo protagonista. La qual cosa lascia adito a un dubbio: è, questo, un libro che mette allegria; ma è un’allegria che evapora in due minuti perché è al netto della malinconia che avrebbe dovuto abitare nell’animo di Norman Moonbloom non solo nelle intenzioni dell’autore e di quel tanto di cattiveria in più con cui non ci sarebbe spiaciuto vedere ritratti i suoi inquilini. Manca, insomma, un po' di mordente, che avrebbe potuto rendere Gli inquilini di Moonbloom un libro meno dimenticabile. Se si dovesse affiancare Edward Lewis Wallant a uno dei suoi fratelli maggiori, si potrebbe scegliere il Nathanael West di Signorina Cuorinfranti; ma a Wallant difetta la ferocia di quest’ultimo.

In compenso, in molte pagine echeggia un certo umorismo alla John Fante, un gojm - per giunta italiano - cui l’autore di Gli inquilini di Moonbloom somiglia notevolmente. L’augurio è che, così come è stato per Fante, per Wallant scocchi finalmente l’ora di una rivalutazione postuma.

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