1973: l’Italia era la repubblica resistenziale delle utilitarie e la Cina la repubblica popolare delle biciclette. Perciò avrebbero patito meno di altri Stati la crisi petrolifera originata dalla guerra del Kippur. Ancora sotto regime coloniale - ci sarebbe rimasta fino al 1997 -, Hong Kong cresceva più del resto della Cina, ed allora era facile; ma anche dell’Italia, ed allora era difficile. Con Hong Kong era anche il suo cinema a crescere. Da lì giungeva in Italia un film di regista e interpreti sconosciuti, che però incassava più di molti prodotti di Cinecittà. Si trattava di Dalla Cina con furore, titolo che negli ultimi trent’anni è diventato un tormentone sui giornali che si sono occupati della formidabile ripresa della grande civiltà cinese.
Il regista era Lo Wei, il protagonista era Bruce Lee nel ruolo di Chen Zhen, campione di kung-fu nella Shanghai del 1908, quando la metropoli sentiva già forte la pressione nipponica. La vicenda opponeva non a caso la scuola cinese a quella giapponese di arti marziali, ma non fu questo significativo dettaglio ad attrarre l’attenzione di critici e spettatori… Per la prima volta agli italiani si proponeva un cinese per eroe. Erano passati pochi anni da Indovina chi viene a cena e dalla Calda notte dell’ispettore Tibbs: così Bruce Lee - nativo di San Francisco - parve un Sidney Poitier ingiallito. Ma questo esile trentenne picchiava come un ferraio, non imponeva la sua superiorità ragionando da liberal. La sorpresa fu piacevole specie per i giovani stanchi italiani di un cinema - specie quello di Hollywood alle prese con la sconfitta neocoloniale in Indocina - per il quale non era più tempo di eroi, caso mai di giustizieri. Della notte, perché di giorno - giustamente - si sarebbero vergognati.
Il successo mondiale di Dalla Cina con furore aveva anche un significato politico di svolta. Nel decennio precedente i cinesi erano stati, per il cinema anglo-americano, i cattivi per eccellenza, scavalcando perfino i russi che, dal dopoguerra, tenevano banco per malvagità nell’immaginario degli anticomunisti. Era un caso che Dalla Cina con furore uscisse a Hong Kong nel 1972, in coincidenza con la visita di Nixon a Pechino, apice della «diplomazia del ping-pong»?
Da allora, nonostante la morte precoce di Bruce Lee, il personaggio di Chen Zhen è tornato ripetutamente sugli schermi. In occasione del teorico settantesimo compleanni di Bruce Lee, sarà anche alla Mostra di Venezia proprio in apertura, il 1 settembre, con Legend of the Fist: The Return of Chen Zhen («Leggenda del pugno: Il ritorno di Ch. Zh.») di Andrew Lau, protagonista Donnie Yen, comprimario Anthony Wong. È l’ennesima riproposta del personaggio, che è stato anche di Jet Li in Fist of Legend di Gordon Chan (1994): siamo sempre a Shanghai, ma negli anni Venti, quindi in contemporanea con le convulsioni della Cina repubblicana e delle insurrezioni comuniste raccontate nei romanzi di André Malraux, oltre che da un capolavoro come Quelli della San Pablo di Robert Wise (1966), interpretato da Steve Mac Queen, il divo dalla vita breve, che a Seattle avrebbe portato a spalla la bara di Bruce Lee, il divo dalla vita brevissima.
Con Chen Kaige, John Woo e Zhang Yimou, Andrew Lau è l’altro grande del cinema cinese. La sua trilogia Infernal Affairs ha ispirato a Martin Scorsese The Departed, che però si è solo avvicinato all’efficacia dell’archetipo. Perciò si può sperare che non si tratti di un semplice rifacimento, più che seguito, dell’originale. Andrew Lau s’è divertito a inserire nella trama un richiamo per cinefili: il locale «Casablanca», ritrovo di avventurieri, spie, europei, giapponesi, cinesi nazionalisti e comunisti, come lo era il Rick’s Cafe del film di Michael Curtiz, ambientato nella città marocchina nel 1941-42.
Dice Andrew Lau: «Chen Zhen è stato l’eroe di tutti noi, mentre il film ha reso Bruce Lee un divo. Era quindi difficile affrontare la nuova versione. La sfida maggiore era descrivere il personaggio per la nuova generazione.
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