da Beirut
La notte è silenzio cupo, marciapiedi svuotati, ristoranti deserti, passanti affrettati. Restano loro, gli armati. Blu da una parte, verdi dallaltra. Poliziotti contro militari. Miliziani del premier Fouad Siniora contro fantaccini di un esercito non apertamente schierato, ma molto, troppo, dispiegato. Per ora è guerra di divise, guerra non dichiarata, guerra di posizione con tank, cannoni e blindati disseminati ai quattro angoli di una capitale stremata, disorientata, spaurita.
Fouad Siniora e i suoi ministri si son rinserrati dietro i muraglioni del Gran Serraglio. Lui, Emile Lahoud, il presidente, lo Scorpione allevato nei vivai di Damasco, ha sferrato lultimo velenoso colpo di coda. Alle 20 e 22, tre ore e mezzo prima dello scadere dei suoi nove anni di mandato, ha affidato allesercito il compito di garantire la sicurezza del Paese. «Ci sono le condizioni ed esiste il rischio che si possa arrivare a uno stato di emergenza», annunciano i suoi portavoce specificando che Lahoud traslocherà due ore prima di mezzanotte. Da quel momento in poi stato maggiore e generali garantiranno la sicurezza nel Paese. Non è ancora un colpo di Stato, ma è un messaggio tossico e insidioso. Una sfida aperta a quel governo Fouad Siniora chiamato, in assenza di un successore di Lahoud, ad assumere competenze e poteri presidenziali. Lo recita larticolo 68 della Costituzione, ma è una certezza resa assai più lieve da quei carri armati e militari schierati ai quattro angoli di Beirut.
Ora bisogna capire se il veleno di Lahoud trascinerà alla fossa il Paese. Lago della bilancia, il cerusico in grado di alleviare il dolore o infliggere il colpo di grazia, si chiama Michel Suleiman. È il capo di stato maggiore, è un generale arrivato fin lì con la benedizione di Damasco, ma dal ritiro siriano in poi ha fatto di tutto per cancellare limbarazzante passato. Ha garantito lordine quando, dopo lassassinio di Hariri, i dimostranti antisiriani invasero Beirut, lo ha mantenuto nel dicembre dellanno scorso quando il centro venne invaso dai manifestanti dellopposizione di Hezbollah e Aoun. Ha riscattato lonore della sua armata riportandola nel sud del Libano e piegando in tre mesi di sanguinosi combattimenti la resistenza dei miliziani alqaidisti di Nahr el-Bared. Ora può tornare alla vecchia fede o tener fede al cammino intrapreso. La speranza è una futura promozione alla presidenza. Per decidere deve fare i conti con un Libano spartiacque del grande scontro tra il mondo sunnita, appoggiato da Arabia Saudita, Stati Uniti e Francia, e lasse sciita puntellato da Iran e Siria.
Ieri sera comunque poteva anche andar peggio. Lahoud poteva anche decretare lo stato demergenza, lasciar assai meno spazio alla responsabilità delle parti. A impedirglielo sarebbe stato laltrettanto velenoso messaggio con cui Washington gli ha rammentato le incognite dellinchiesta sul caso Hariri, il rischio di trascorrere gli anni della pensione con i tre amici generali già detenuti nelle carceri libanesi.
Il colpo di coda di Lahoud era stato preceduto in mattinata dal tentativo dei deputati della maggioranza di eleggere un presidente in extremis. Nabih Berri, il presidente filosiriano dellAssemblea, aveva, per la prima volta in due mesi, aperto le porte al voto. Ma era una concessione ben calcolata. Per arrivare allelezione ci vogliono due terzi dei deputati e la maggioranza non li ha. Sei dei suoi sono freddi cadaveri dilaniati da autobomba e sicari. I 68 ci provano. Più che un voto è uno scatto dorgoglio. I parlamentari filosiriani rimangono ben lontani.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.