Bengasi, tre anni dopo: la rivoluzione si è dissolta ma resta l'incubo di al Qaida

La grande paura per molti si chiama Ansar Sharia, l’organizzazione alqaidista che semina il terrore in città. SEGUI IL REPORTAGE DALLA LIBIA

Bengasi, tre anni dopo: la rivoluzione si è dissolta ma resta l'incubo di al Qaida

Bengasi - Tre anni dopo la rivoluzione non c’è più. Sembra scomparsa, dissolta, dimenticata. Il 17 febbraio del 2011 il palazzo della Giustizia di Bengasi era il cuore della rivolta, il quartier generale degli insorti anti gheddafiani. Oggi davanti al palazzo rinnovato e restaurato ci sono solo tre ragazzini che vendono bandiere. Ma nessuno le compra. A mezzogiorno Saha Shuada, la vicina Piazza dei Martiri dove si dovrebbero svolgere le celebrazioni è ancora vuota. "La gente preferisce dormire e starsene a casa. Non crede più a niente", spiega Tarek Kashbour 24 anni. Ci siamo conosciuti tre anni fa, proprio davanti al palazzo di Giustizia. Tarek aveva 21 anni e lavorava come volontario assieme alle altre migliaia di ragazzi che avevano piantato le tende davanti al mare e davano una mano a chi combatteva con le armi contro l’esercito di Gheddafi. Oggi la politica lo disgusta. "Nulla di quello in cui speravo si è realizzato - racconta - ora mi sono laureato e penso solo a lavorare". Altri invece hanno ripreso a protestare. Ogni sera le piazze di Bengasi si riempiono di dimostranti che chiedono al governo e ai politici del Congresso Nazionale di rimettere il proprio mandato e tornarsene a casa.

"Ci sono un sacco di attentati, un sacco di assassini. Ogni giorno vengono uccise almeno una o due persone", racconta Mustafa, un 40enne sceso in piazza assieme ad altri dimostranti. "Prima della rivoluzione l’unica cosa che non mancava era la sicurezza. Sognavamo di vivere meglio di avere delle buone scuole per i nostri figli e invece non abbiamo più neppure la sicurezza... Per questo non li vogliamo più tra piedi". La grande paura per molti si chiama Ansar Sharia. Dietro quel nome si nasconde l’organizzazione alqaidista che l’11 settembre uccise, proprio qui a Bengasi, l’ambasciatore statunitense Chris Stevens e altri tre americani. Oggi quell’organizzazione semina il terrore in città. Gli unici a minimizzarne il pericolo sono i militanti islamisti del Partito della Giustizia e della Ricostruzione, allineato con i Fratelli Musulmani. Qui in Cirenaica sono andati al potere grazie al ruolo decisivo giocato tre anni fa dai loro militanti appoggiati e finanziati dal Qatar. Ma oggi la gran parte dei cittadini di Bengasi farebbe volentieri a meno di loro. "Vorrei non vedere più armi nelle strade", spiega Yara Buqer, una giornalista ventenne volto di Al Ahrar, la televisione più seguita della Cirenaica. Tre anni fa incominciò la sua carriera raccontando la rivoluzione. Oggi teme per il proprio futuro. Una settimana fa gli studi della sua televisione sono stati attaccati da un gruppo di armati a colpi di kalashnikov e bottiglie molotov. Da quella notte Yara vive nella paura. "Secondo me tutto questo non succede per caso.... ma perché fa comodo a loro Potevano imporre la consegna delle armi già molto tempo fa... Ma se lo racconti rischi di far i conti con i loro militanti. Devi star zitto, altrimenti rischi di far una brutta fine". Anche Tarek Al Houni, un 40enne cameraman di Al Ahrar premiato per il coraggio dimostrato durante la rivoluzione anti gheddafiana non si sente più tranquillo. "Nessuno dei nostri sogni di tre anni fa si è realizzato. Il principale problema sono le uccisioni, gli attentati. Ogni giorno viene ucciso qualcuno e non sai né perché, né da chi. A differenza di tre anni fa non sappiamo neppure chi sia il nostro nemico. Un tempo era chiaro..... era Gheddafi. Oggi i nemici sono tantissimi. Ci sono nostalgici di Gheddafi, i jiahdisti e infine quelli di al Qaida".

Ansar Sharia è anche l’incubo di Yara. "Credo vengano da fuori, dall’Afghanistan o da chissà dove. Temo abbiano un piano per preciso per conquistare la Libia e trasformarla nel loro regno". Yara in tre anni non ha mai indossato il velo e continua a non farlo neppure oggi. "Ai tempi di Gheddafi – ricorda - potevamo andar in giro da sole, studiare con i nostri amici.

Nessuno si sognava di dirci quello che dovevamo o non dovevamo fare Ora le cose sono cambiate. La maggior parte delle donne ha incominciato a portarlo. Alcune lo fanno perché ci credono, altre preferiscono coprirsi semplicemente per paura. Per me sbagliano, non devono farlo... È come arrendersi al terrorismo".

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