Kerry in Irak, ma il Paese non c'è più

Il segretario di Stato Usa a Bagdad, ormai ex capitale di uno Stato dissolto: diviso fra curdi, sciiti e integralisti

Kerry in Irak, ma il Paese non c'è più

C'erano una volta Bagdad e l'Irak. Il segretario di Stato John Kerry c'è sbarcato ieri. Ma dove un tempo c'era una capitale, sopravvivono oggi solo un governo in attesa dell'apocalisse e i simboli di un paese scomparso. Tutt'intorno un traballante protettorato iraniano dove le fazioni sciite devono decidere se far corpo unico contro la minaccia sunnita, incarnata dai miliziani dell'Isis (Stato Islamico dell'Irak e di Siria), o regolare i conti tra di loro. Tutto il resto è nebbia, guerra e orrori. Orrori evidenziati, ieri, dal ritrovamento di centinaia di soldati decapitati e a sud della capitale, di una settantina di cadaveri massacrati dai miliziani alqaidisti. Dove non regna l'orrore impera il caos.

All'estremo nord i curdi hanno di fatto proclamato l'indipendenza sloggiando l'esercito iracheno da Kirkuk, considerata da sempre la loro storica capitale, e acquisendo il controllo delle importanti riserve petrolifere irachene. Riserve che ora potranno sfruttare in totale autonomia rivendendo il greggio iracheno nella confinante Turchia di Erdogan. Certo rischiano anche loro di fare i conti con l'Isis, ma non è un problema. Per quanto fanatici i miliziani al qaidisti-sunniti non andranno certo a impegolarsi tra le montagne del Kurdistan dove rischiano di vedersela con i pasdaran iraniani. Molto meglio concretizzare il controllo sul triangolo sunnita e su quelle aree nord occidentali che consentono all'Isis di governare un unico vasto Califfato esteso dal settentrione iracheno sino ai territori siriani di Rakka e della periferia est di Aleppo su cui già sventolano le loro bandiere nere. A questo punto, però, basta un'occhiata alla mappa per notare la scomparsa dell'Irak.

L'artificiale commistione di territori curdi, sunniti e sciiti nati dalla dissoluzione dell'impero ottomano e trasformati dal trattato di Sèvres in un deposito di idrocarburi per l'impero britannico, non esiste più. Per questo la «missione» del Segretario di Stato nella ormai «ex» capitale irachena è poco più di un viaggio virtuale. Una trasferta diplomatico-mediatica programmata per parare le critiche a un'Amministrazione accusata di aver dimenticato un paese dove Washington ha dilapidato qualche trilione di dollari e le vite di quasi 4500 soldati.

A questo punto però, dietro la visita di facciata di Kerry, si cela anche una ragionevole strategia. Impegnarsi a bombardare le truppe dell'Isis in marcia verso Bagdad significherebbe solo regalare un altro vantaggio all'Iran e alle milizie sciite. Alla fine sarebbero loro a mettere gli scarponi sul terreno e a trarre vantaggio dai raid statunitensi. Per non parlare dei rischi legati all'invio di consiglieri militari che potrebbero ritrovarsi ostaggi delle milizie sciite o degli stessi pasdaran iraniani. Anche perché le timide proposte di un'alleanza d'interesse avanzate dal presidente iraniano Hasan Rohani sono state cancellate, nel frattempo, dall'altolà della Suprema Guida Alì Khamenei che ha ribadito il «no» a un ritorno americano in Irak.

L'unica e ultima possibilità era dunque questa missione di diplomazia virtuale. Una missione durante la quale Kerry, fingendo di non accorgersi di muoversi tra le rovine di uno stato ormai dissolto, ha inutilmente continuato a pretendere dall'irriducibile premier Nouri Maliki la formazione di un esecutivo di unità nazionale rispettoso delle esigenze dei sunniti e pronto a scendere a patti con i curdi. Nel mezzo del disastro l'intransigenza di Maliki e degli iraniani promettono però di trasformarsi in un macchiavellico vantaggio.

Alla fine Obama potrà accusare la dirigenza irachena e i suoi alleati di non averlo ascoltato. E restare a guardare mentre l'Iran, già impegnato sul fronte siriano, si ritroverà costretto a sacrificare altri uomini e risorse per contenere l'avanzata alqaidista.

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