Più donne e immigrati scelti. La via di Tokyo per non morire

Bassa natalità e deflazione sono le due emergenze. Il premier Abe le combatte con misure rivoluzionarie in un Paese maschilista e contrario agli stranieri

Più donne e immigrati scelti. La via di Tokyo per non morire

«La deflazione è una morte lenta», dice la portavoce del governo di Tokyo, Hikariko Ono, in un'intervista in occasione della visita a Roma del premier giapponese Shinzo Abe. Con la deflazione «la gente non compra più niente, non spende, i giovani non hanno speranza per il proprio futuro», e così finiscono col non sposarsi, e soprattutto non fanno figli. In Giappone la bassa natalità è ormai una vera emergenza. Come un'eutanasia, ma su scala nazionale. Un popolo senza bambini che si ritrova, a distanza di un paio di generazioni, con pochi giovani in età lavorativa e un numero di over 65 da mantenere in crescita esponenziale. Secondo un report pubblicato dal ministero della Salute di Tokyo la scorsa settimana, il numero di bambini nati nel 2013 è 1.029.800, ovvero 7.431 bambini nati in meno rispetto all'anno precedente. Il tasso di fecondità – l'indicatore che si usa in demografia per calcolare il numero medio di figli per donna – è in lievissimo aumento (+0,02) ma ancora troppo poco per contrastare la progressiva contrazione della natalità. Inoltre secondo il report, il numero di matrimoni è sceso ai livelli del Dopoguerra. Sin dal 2005 il numero di morti supera quello dei neonati, e complici le politiche sull'immigrazione molto rigide, c'è sempre meno gente che lavora e che consuma. Secondo le stime del 2012 il numero di cittadini giapponesi potrebbe precipitare da 127 milioni a circa 86 milioni entro il 2060.

È per questo che il premier Shinzo Abe, al governo dal 2012, nel suo programma per far uscire il Paese da quello che chiamano «il decennio perduto» ha inserito una serie di riforme rivoluzionarie per un paese conservatore come il Giappone, ma al tempo stesso necessarie per la ripresa economica del paese. E sono due le parole chiave: le donne e l'immigrazione. Secondo il piano dell'Amministrazione Abe, le donne giapponesi non dovranno più essere costrette a scegliere se fare le mamme o lavorare. «Abbiamo elaborato misure per avere asili e piccole strutture per l'infanzia che accoglieranno, entro il 2017, 400mila bambini in più», ci spiega Ono. «Inoltre abbiamo chiesto alle aziende di assumere più donne, entro il 2020 ogni società sarà composta per almeno il trenta per cento da donne».

Ad aprire la strada a quella che è stata soprannominata la womenomics di Abe è stata la holding Nomura, che a marzo ha messo una donna a capo della divisione delle banche. Ma non è abbastanza. «Quella che stiamo preparando non è una nuova politica sull'immigrazione», dice Ono, «ma sono misure che fanno parte della strategia di crescita». Due anni fa Abe ha introdotto un sistema a punti per i professionisti stranieri, simile a quello già adottato dall'Australia, e per ottenere la residenza basteranno tre anni di permanenza in Giappone e non cinque. Inoltre il governo sta promuovendo la conoscenza dell'inglese tra i giapponesi e l'abbassamento del livello di lingua giapponese richiesto per lavorare su suolo nipponico. Il sostegno dei lavoratori stranieri «sarà necessario come aiuto nelle attività domestiche e nella cura degli anziani», perché non ci sono abbastanza giapponesi che lavorano nel settore dell'assistenza sanitaria. E poi le Olimpiadi del 2020 si avvicinano, e la manodopera straniera servirà per costruire le infrastrutture.

La sfida più difficile è però quella di convincere i giapponesi, che per l'85 per cento sono contrari all'immigrazione in un paese dove lo straniero è ancora chiamato con il termine dispregiativo gaijin. «Quelli sono pregiudizi della nostra generazione», dice Ono, «mio figlio ha dieci anni e nella sua classe ci sono molti coreani, ma nessuno li chiama così. Il Giappone è pronto ad aprirsi di più al mondo. Questa è la vera generazione del cambiamento».

Ma vista questa ondata di progressismo, state pensando anche di legalizzare i matrimoni gay? La portavoce del primo ministro ride: «Guardi, non posso rispondere, perché non è un tema di discussione nel nostro governo». Le spiego che da noi in Europa lo è. Lei ride, ancora.

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