Un ex miliziano di Al Qaida: «Così l’Iran ci ha arruolati»

Un ex miliziano di Al Qaida: «Così l’Iran ci ha arruolati»

È la storia mai scritta degli ultimi giorni della guerra al regime talebano in Afghanistan e alle milizie di Al Qaida. Washington in quei giorni accusava l’Iran di favorire la fuga dei fedelissimi di Osama bin Laden, di ospitarli sui propri territori. Teheran liquidava tutto come maldestre insinuazioni, negava qualsiasi legame con Al Qaida, ricordava di considerare i talebani come dei nemici colpevoli del massacro di migliaia di afghani sciiti. Sei anni dopo il quotidiano saudita Al Riyadh pubblica l’intervista a un ex miliziano di Al Qaida che spiega di esser sopravvissuto alla Caporetto afghana grazie alla collaborazione dei pasdaran iraniani e di essersi poi visto offrire un nuovo lavoro dai servizi segreti di Teheran.
L’intervista raccolta da Dares bin Hazem, uno dei massimi esperti sauditi di Al Qaida, inizia rievocando gli ultimi giorni di guerra di una trentina di sauditi tra cui Faisal Al Dakhil e Amr Al Shehri, due militanti qaidisti destinati a venir uccisi durante gli attentati del 2004 in Arabia Saudita. Osama bin Laden e lo sceicco Omar hanno appena ordinato il “si salvi chi può” quando i trenta sauditi ricevono un messaggio da Gulbuddin Hekmatyar, un leader afghano nemico dei talebani ospitato in territorio iraniano. Hekmatyar, che in seguito tornerà in Afghanistan rivendicando e smentendo di volta in volta la propria affiliazione con Al Qaida, promette di negoziare con i Guardiani della Rivoluzione. Alla fine della trattativa il gruppetto si ritrova a Zahedan, una città ai confini sud orientali dell’Iran.
«Quando arriviamo troviamo ad attenderci Abu Hafs Al Mauritani - racconta l’ex militante -. Lo conosciamo, è un comandante di Al Qaida, l’abbiamo già incontrato in Afghanistan, lui dice di non preoccuparci perché siamo in un posto sicuro». Lo stesso Al Mauritani spiega ai sauditi di rispondere alle domande dei servizi segreti iraniani che in cambio faranno fronte a tutte le necessità e faciliteranno la loro permanenza in Iran. «A quel punto - ricorda il militante - il gruppo si sfalda... una ventina di persone tra cui Al Dakhil e Al Shehri scompaiono da un giorno all’altro, io e gli ultimi dieci rimasti veniamo portati a Teheran per essere interrogati. La proposta degli agenti iraniani mi lascia senza parole. Innanzitutto mi offrono di collaborare lavorando dall’interno del mio Paese e garantendo tutte le informazioni di cui potrebbero aver bisogno in futuro. Io rifiuto, ma l’ufficiale mi incoraggia: «Riceverai un salario mensile di 10mila dollari, un passaporto iraniano e verrai addestrato nelle basi di Hezbollah in Libano».
Per valutare la fondatezza del racconto va ovviamente tenuto in debita considerazione lo stato di guerra virtuale in cui convivono Arabia Saudita e Iran. Le due potenze sono infatti le capo fila del silenzioso quanto devastante conflitto tra sciiti e sunniti che agita il ventre mediorientale. Per l’Arabia Saudita riuscir a collegare Al Qaida, considerata filiazione del fondamentalismo religioso sunnita, a Teheran è un successo non da poco, soprattutto nell’ottica della guerra della disinformazione combattuta dai due Paesi. La ricchezza di dettagli del racconto sembra però far capire che Al Riyadh non teme smentite. «Voi e noi abbiamo lo stesso nemico, combattiamo l’America e chiunque l’appoggia e l’aiuta a restare in questa regione - ricorda l’ex militante saudita rievocando le profferte ricevute dai funzionari iraniani durante gli interrogatori -. Il vostro jihad è il nostro jihad e mettere a segno delle operazioni comuni è un dovere per tutti noi. Non abbiate paura, vi rilasceremo tutti e quando avrete accettato le nostre offerte contatterete qualcuno nel vostro Paese per ricevere istruzioni».
Poi la grande fuga con in mano i passaporti ripuliti da ogni segno di soggiorno afghano e con sopra stampigliato un visto con una data precedente l’11 settembre del 2001.

«Se ben ricordo – spiega l’ex-militante - ci stamparono su ogni passaporto un visto con la data di giugno... poi ci dissero cosa raccontare all’aeroporto del nostro Paese per far capire che in Afghanistan non ci eravamo mai stati».

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