Il fatto La domenica di sangue che cambiò la storia dell’Irlanda

Jack Duddy, 17 anni: colpito al cuore da una pallottola mentre scappava dai soldati. Era disarmato. William Nash, 19 anni: colpito al petto mentre correva in aiuto di un ferito. Era disarmato. Gerald McKinney, 35 anni. Due testimoni raccontano: aveva le mani alzate, in segno di resa, e urlava «Non sparate, non sparate». È stato ucciso dai parà a Glenfada Park. Nulla fu mai più lo stesso dopo quel 31 gennaio 1972. E non solo per l’Irlanda del Nord. Tre ore e quaranta minuti a cambiare il corso della storia. Prima le marce, le manifestazioni per i diritti civili, le battaglie pacifiche contro «l’internamento senza processo», l’esclusione dei cattolici dal governo, le discriminazioni sulla casa, sul lavoro, persino sul voto (limitato, nei comuni, ai soli residenti proprietari, in gran parte protestanti). Poi la fine della disobbedienza civile e la parola alle armi, il terrore per le strade, le bombe: l’inizio della carneficina.
«Da quel giorno cominciarono le code per entrare nell’Ira», spiega John Kelly, fratello di Michael, una delle 14 vittime. Dopo la marcia pacifica finita nel sangue, dopo il fuoco aperto dai paracadutisti inglese sui dimostranti disarmati, l’aria in Ulster si fa irrespirabile, la convivenza insopportabile. È guerra civile. Il 2 febbraio l’ambasciata britannica di Dublino va a fuoco, governo e Parlamento locali vengono sciolti da Londra e il 21 luglio ventidue bombe dei nazionalisti dell’Ira (Irish Republican Army) uccidono nove persone nel tragico venerdì passato alla storia come Bloody Friday. Un’escalation di odio senza precedenti: 479 morti fino alla fine dell’anno, il più sanguinoso dei Troubles. Bisognerà aspettare il 1977 perché il numero delle vittime scenda sotto la soglia annuale dei duecento, quella che aveva preceduto la domenica di sangue a Derry.
È l’ingiustizia del Bloody Sunday che acceca gli animi e divide col sangue, per i venticinque anni successivi, protestanti e cattolici, unionisti e nazionalisti, irlandesi e inglesi. «Soldi, pistole e nuove reclute da quel momento cominciano a inondare l’Ira», ricorda Gerry Addams, presidente del Sinn Fein, il braccio politico dell’Ira. La prospettiva di una soluzione politica si allontana per sempre. And the battle’s just begun - la battaglia è appena cominciata - there’s many lost but tell me who has won - molti perdenti, ma dimmi chi ha vinto - cantano gli U2, mentre ricordano le trincee, quelle vere e quelle dei cuori - the trenches dug within our hearts - scavate da un popolo costretto a convivere nell’odio e nella segregazione - and mothers, children, brothers, sisters torn apart.
È un dramma quello irlandese che ispira la musica, il cinema e la letteratura. Ma la realtà è sempre più dura della rappresentazione. Come la storia di Gerry Conlon, ingiustamente accusato di terrorismo, raccontata prima nel romanzo autobiografico Proved Innocent e poi diventata la celebre pellicola di Jem Sheridan, «Nel nome del padre». «Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra», scrive Bobby Sands dalla prigione di Long Kesh, dove si lasciò morire con uno sciopero della fame, all’età di 27 anni, per un’Irlanda del Nord libera dal giogo britannico.

In centomila partecipano ai suoi funerali mentre i governi d’Europa guardano e prendono esempio - errori compresi - alla lotta dura che Londra ingaggia coi terroristi. Anche lui figlio del Bloody Sunday. Anche lui eroe di una guerra sbagliata.

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