La felicità vi è scappata via? Datele la caccia pedalando

Da Marc Augé al direttore di "Le Monde" gli intellettuali riscoprono il fascino del "velocipede". E c’è chi profetizza che nel 2039 il motore sarà fuori moda

La felicità vi è scappata via? 
Datele la caccia pedalando

E poi dicono che gli occidentali non hanno un rito di iniziazione. È perché non si ricordano di quando sono saliti per la prima volta su una bicicletta. A parte rare eccezioni, maschi e femmine veniamo installati sul sellino a partire dagli anni dell’asilo. Il dominio del mezzo va appreso in pochi secondi. Il pensiero si fa azione, precisa, energica, irreversibile. I sensi, compreso quello dell’orientamento e dell’equilibrio, si piegano ad esser governati da quel momento. Spingiamo, arranchiamo, barcolliamo. Finché riusciamo a stare su due ruote, ad avanzare, a mangiare strada. E primavoltità e libertà ci fiondano nell’età adulta.

L’antropologo del contemporaneo Marc Augé - quello che ha fatto la fortuna degli aeroporti e degli autogrill - perché da quando lui ha detto che sono non-luoghi ci sembrano improvvisamente più belli, quasi esotici - ci ha appena scritto un libretto, Il bello della bicicletta (Trad. di Valentina Parlato, Bollati Boringhieri, pagg. 70, euro 8). Sostiene Augé che la bici è il vero e unico mezzo popolare. Fu dopo la Seconda guerra mondiale che divenne mito, epopea, utopia. Centinaia di migliaia a urlare al Giro d’Italia e al Tour de France. Centinaia di migliaia a seguire con occhi sgranati quei due Ladri di biciclette, papà Antonio-Lamberto Maggiorani (e pensare che avrebbe potuto esserci Cary Grant al suo posto, se De Sica avesse accettato le sovvenzioni americane per la produzione del film) e il piccolo Bruno-Enzo Staiola che giravano per le strade di Roma, che senza auto parevano gigantesche, impossibili da conquistare a piedi, capaci, se non avevi una bici, di mangiarti il cuore dalla stanchezza.

Nell’attimo esatto in cui l’Italia si divide tra Bartali e Coppi, e i francesi che s’incazzano e i giornali che svolazzano, ecco che la bicicletta unisce il Paese. Racconta il direttore di Le Monde Eric Fottorino, in un altro volumetto da poco uscito per cantare le lodi delle due ruote a pedale, Piccolo elogio della bicicletta (trad. di Simona Brogli, Excelsior 1881, pagg. 122, euro 10,50), che Dino Buzzati, inviato del Corriere della Sera al Giro d’Italia del 1949, non aveva mai assistito ad alcuna corsa ciclistica. E quando si trovò di fronte al duello dell’ «Airone» Campionissimo e del «Vecchio Gino» restio a cedere il passo, non esitò a paragonare quel testa a testa alla contesa tra Achille ed Ettore. E Fottorino conferma: «Ad ogni colpo di pedale, i campioni del ciclismo assurgevano viventi al rango di superuomini».

Qualcuno potrebbe obiettare che quei bei tempi sono andati. Che la leggenda di sangue e sudore degli assi della bici si è un po’ offuscata. Che a parlar di culto del sellino venga con maggior facilità alla mente quello solcato dalle rotondità di Anna Ammirati in Monella di Tinto Brass (eppure, la bici Atala del film era di proprietà di un certo Francesco Coppi: che storia meravigliosa, quella della bicicletta). E invece proprio ai giorni nostri la bici fa un nuovo sprint e scalpita per sfilare nelle campagne e nelle metropoli, come e più di allora. Vigorosa, incorrosa, neofuturista madrina d’un movimento cameratesco che, come sostiene Augé, è «amabile ed eroico perché si impone sulla vecchiaia e la morte», è «ebbrezza della solitudine e piacere della socializzazione», «coscienza della sfida e del momento condiviso».

L’antropologo si proietta in una Parigi del 2039, in cui vietata del tutto la circolazione alle automobili e limitata quella dei mezzi pubblici alle corsie preferenziali, nel centro storico della città si muovano centinaia di migliaia di biciclette. Personalizzate «come facevano un tempo con le loro macchine gli automobilisti presi in giro da Baudrillard»: pupazzetti, immagini di San Cristoforo, portafortuna di diverso tipo esposti su bici dal telaio reinventato al bricolage. Bici-taxi, bici con tre sellini, bici equipaggiate con motore elettrico d’emergenza.

La bici, insomma, simbolo della nuova giovinezza del mondo, in bici per cambiare la vita, il ciclismo come forma di umanesimo. Testimonial del ritrovamento degli odori di fiori, frutti, conchiglie e pesci sui banchi del mercato, bucato fresco e acqua di colonia. Terza via, teorizza addirittura Augé, «tra liberalismo e socialismo, perché si preoccupa soprattutto del benessere degli individui», segnando la fine del vecchio giochino: la bicicletta è di destra o di sinistra? Giochino a cui troppo spesso ci si sentiva rispondere «Ovviamente, di sinistra». Senza pensare, come invece fanno gli antropologi, che nel 2036 potrebbe anche esserci già stato il primo uomo a pedalare su Marte, sotto gli occhi di nove miliardi di terrestri.

Diciamo allora che bicicletta è di chi la usa e di chi pensa a farcela usare. E siccome almeno una volta nella vita l’abbiamo usata tutti, il conto è presto fatto. Tuttavia perché la si usi ci vuole anche uno stimolo, che sarebbe poi qualcosa che faccia venir voglia, e «stimolo» non è forse, sfogliare il dizionario per credere, sinonimo di «incentivo»? Che sia per ecologia muscolare, atmosferica e intellettuale. Che sia per combattere la crisi. Che sia che l’ultima fosse blu color del mare, comprata usata, con le canne grosse, i freni sempre rotti e senza cavalletto e anche se quando me la rubarono mi sentii privata di una libertà che nessuna automobile mi ha mai regalato, adesso mi è venuta voglia di ricomprarla nuova e magari la «personalizzerò» con un San Cristoforo.

O che sia perché, come poetizza Fottorino, «pedalare è semplicemente essere vivi», da qualche giorno siamo cinquantamila in più. A poter togliere il lucchetto, montare sul sellino, goderci la libertà di mangiare strada, ricordando quella primavoltità che ci rese adulti. Uniti, finalmente, ai ciclisti di tutto il mondo.

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