Tra le tante prime pagine geniali che hanno confezionato al Foglio nella loro giovane ma fecondissima storia, ne hanno scelte due da appendere all’ingresso: la prima è quella del giorno d’apertura dell’ultimo conclave («La formidabile lezione del prof. Ratzinger»); la seconda è quella del giorno successivo: «La formidabile elezione del prof. Ratzinger». Sono quelle due lì, che ti accolgono appena entri in redazione. Giri la testa e sulla parete opposta ne vedi un’altra. Il titolo è «Storie di disordinata fecondazione».
Ti aspetteresti insomma di trovare un Giuliano Ferrara pronto a dire il peggio sulla svolta laicista di Gianfranco Fini. Anche perché non è solo questione di laicismo. Ormai ogni volta che Fini apre bocca, Scalfari applaude. E applaudono MicroMega, Gad Lerner, Furio Colombo e tutto quel milieu politicamente corretto di cui Ferrara denuncia da un pezzo la banalità, l’inerte accodarsi a un pensiero-slogan. E invece, «la svolta di Fini mi affascina», ci dice Ferrara dalla sua poltrona di direttore-fondatore. Dietro di lui, si vede scorrere il traffico del Lungotevere. È vero che Ferrara ha sempre detto che solo i cretini non cambiano mai idea. Però tra il non cambiare mai idea e il cambiarla su tutto, e in così poco tempo, una via di mezzo ci dovrebbe pur essere. Molti elettori, anzi molti ex elettori di An, dicono che Fini è un traditore.
Invece lei, Ferrara, lo difende?
«Non è che difendo Fini. Anzi, nel merito spesso lo critico. E non ho neanche mai avuto una gran stima di lui come politico. Ma sono molto preso da questa sua nuova avventura, che trovo abbia un lato romantico e uno politologico».
Perché romantico?
«Perché c’è un uomo che si converte, e le conversioni sono sempre interessanti».
Secondo lei Fini è sincero?
«Non lo so, non posso entrare nel suo animo. Ma dal giorno del “fascismo male assoluto” e da quello del tre sì al referendum sulla legge 40 è stato un crescendo. Ormai Fini ha cambiato praticamente tutto di se stesso. La sua assomiglia molto a metanoia».
Veniamo al fatto politologico.
«Anche qui siamo di fronte a qualcosa di singolare. In genere, un leader è forte perché ha alle spalle un gruppo dirigente e un elettorato. Fini aveva i colonnelli, e poteva contare sul consenso del 12 per cento degli italiani. Aveva pure una tradizione - e che tradizione - nel suo bagaglio. Bene, Fini ha scientemente decostruito tutta la sua base. A un certo punto ha detto: io sono solo».
È qualche anno, che si smarca.
«Ma adesso non è solo questione di smarcarsi. Fini sta cercando di diventare leader non più di un partito, ma di una rivoluzione culturale».
È l’uomo che visse due volte?
«Anche più di due volte. O forse, al contrario, è un uomo che cerca finalmente di vivere almeno una volta».
Fino ad ora non ha vissuto di vita propria?
«Beh, insomma, diciamo la verità: nessuno gli ha mai dato molto credito. Come comincia la vera carriera politica di Fini? Quando Berlusconi disse che a Roma avrebbe votato per lui. Ma in quel momento Fini era solo l’oggetto politico. Il soggetto era Berlusconi».
Poi però ha cercato di mettersi in proprio. Via da Silvio, e vai con il sodalizio con Mario Segni.
«E fu un tonfo clamoroso. Fecero una lista che aveva per simbolo un elefante, e io tolsi l’elefantino dalla mia rubrica, sostituendolo con un ippopotamo, proprio per evitare confusioni».
Ma a un certo punto s’è pensato: il delfino di Berlusconi è lui.
«Ridicolo. Non c’era nessuna possibilità».
Sta dicendo che la carriera politica di Fini è stata un flop dietro l’altro? Una vita da mediano?
«L’immagine che aveva Fini era quella di uno che veste Facis e parla bene. Sa che cosa diceva Craxi di lui? È un vuoto incartato: dentro, non c’è il regalo».
Curioso. Nel Fronte della Gioventù lo chiamavano «dietro gli occhiali niente».
«Appunto. Più o meno la stessa cosa».
Adesso, invece, il riscatto?
«Sicuramente adesso sta nascendo un fatto interessante. Fini sta cercando un ruolo da protagonista».
Il suo amico Buttafuoco dice che Fini ha gettato via tutto, del passato. E non si può gettare via tutto.
«È vero, Pietrangelo lo vede come un voltagabbana. Lo capisco. Fini ha buttato via tutta una tradizione che non era certo banale, perché il fascismo sarà stato un orrore ma non era un patrimonio insignificante. Però sono anche passati sessant’anni, era ora di cercare qualcosa di nuovo».
Ma che cosa c’è di nuovo in quello che dice Fini? Sempre Buttafuoco dice che ha solo copiato il politically correct della sinistra.
«È vero anche questo. Per ora, di nuovo Fini non dice nulla. Ha preso lo schema Bobbio-Zagrebelsky e lo ha fatto suo».
I finiani dicono: anche Sarkozy ha innovato la destra.
«Ma è una storia diversa. Sarkozy ha fatto qualche piccola rottura, tuttavia rappresenta sempre il gollismo che si fa strada nel segno dell’autorità. Voglio dire: Sarkò rimane di destra, ha un impianto culturale che gli consente qualche concessione al politically correct pur restando nella tradizione della destra francese. Che è una destra antifascista. Questo Fini non se lo può permettere. Lui viene da una destra che era fascista. Ecco perché deve rompere completamente con il proprio passato».
Ma scusi: ma che cosa c’entrano le battaglie per la fecondazione assistita o per le coppie gay con la rottura con il fascismo?
«Niente. Però Fini non è stupido, sa che il Paese è in gran parte secolarizzato, e che la Chiesa stessa su certi temi è divisa. Se fai il laicista prendi certamente più voti di quanti ne ho presi io con la lista contro l’aborto. Con le sue nuove posizioni sulla bioetica, Fini conquista consensi e diventa una voce credibile per i lettori di Repubblica».
Una battaglia dagli scopi personali?
«È un dubbio che non mi faccio neanche venire. Da Machiavelli in poi, s’è sempre saputo che c’è una coincidenza di interessi pubblici e di egotismi. Il buon politico non è quello che rinuncia a se stesso».
Secondo lei questa volta Fini ce la fa, a diventare un numero uno?
«Non so. Dovessi fare una diagnosi, direi che per adesso il progetto non si è ancora depositato. Galleggia. Però, sa, l’Italia è un Paese strano, in un certo senso è tutta di sinistra, e Fini sta toccando corde che alla sinistra piacciono».
L’Italia tutta di sinistra? Questa è nuova.
«Non mi fraintenda. Mi rendo conto che è difficile da spiegare, però c’è tutto un modo di essere che, insomma, è di sinistra. Maroni è il ministro che caccia i clandestini, ma è uno che suona con la band; Bossi fa il nordista, ma lo fa mettendosi il fazzoletto al collo come i partigiani. E la diocesi di Milano? È la più grande del mondo, e ha una cultura solidarista, di sinistra in fondo. E Tremonti? Tremonti è uno di sinistra, dai!».
Vediamo se riesco a capire. Sta dicendo che, al fondo, la cultura italiana è di sinistra, e Fini sta puntando a ottenere i consensi della cultura?
«Dico che la destra è un concetto abbastanza estraneo alla cultura italiana. E non si può escludere che un giorno Fini possa apparire come un modernizzatore a un bacino elettorale che oggi ancora lo rifiuta».
Fini prossimo leader della sinistra?
«Questo no, è impossibile. Però può darsi che fra quattro anni Fini sappia trovare i toni giusti, i tratti giusti per piacere a un certo elettorato. Potremmo trovarci di fronte a un cambiamento che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare».
Anche lei, Ferrara, è un «convertito», intendo dire in politica. È per questo che la conversione di Fini la affascina?
«Non lo nascondo. Le storie degli ex mi piacciono anche perché sono io pure un ex. Fini ha mollato un gruppo per diventare un oratore solitario.
Michele Brambilla
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