Fini alza il tiro ma ha la pistola scarica

Il gruppo parlamentare autonomo è un modo di far pressione. Ma all’ex leader di An non conviene far cadere il governo: sarebbe un suicidio politico. Il suo obiettivo è fare da contrappeso alla Lega e allearsi con Casini

Fini alza il tiro ma ha la pistola scarica

La colpa è sempre del solito cerino. Chi lo spegne? Lo scenario è Montecitorio. Fini come al solito saluta Berlusconi e presenta la sua lista di lamentele. Non va bene il partito. Non va bene la Lega. Non va bene il tonno. Non va bene che noi cerchiamo soluzioni per far nascere la terza Repubblica e Calderoli si presenta alla festa di Cota, tra ballerini e karaoke, con una bozza di riforme scritta su un tovagliolo di carta e tu, Berlusconi, prendi e porti a casa. Non va bene che io, Fini, non so mai nulla. Non va bene il Giornale. Non va bene niente. E qui arriva il cerino acceso. Gianfranco dice a Silvio: se non si cambia faccio un gruppo parlamentare tutto mio. Questa volta Berlusconi ascolta e risponde: fai pure. Il messaggio è chiaro: il cerino, se davvero vuoi, spegnilo tu. Non resta che aspettare. Fini spegnerà il cerino o lascerà che si spenga lentamente? La notizia è che il gruppo parlamentare autonomo si sta materializzando. Si chiamerà, sembra, Pdl Italia e Italo Bocchino parla di 50 deputati e 18 senatori. Ma forse è ancora troppo presto per fare i conti. Tutto questo visto da lontano è perlomeno un po’ stravagante. Non c’è più An. Non c’è più Forza Italia. Ma c’è il Pdl e Pdl Italia. C’è un partito con due gruppi parlamentari. Ci sono i berlusconiani, i finiani, gli ex di An e gli ex di Forza Italia. È inutile spiegare la ratio di tutto questo. Magari c’è, ma nessuno la capirebbe. A cosa serve un altro gruppo parlamentare? È, o dovrebbe essere una spina nel fianco. È un gruppo di pressione. È un modo per ricordare a Berlusconi: attento che ti facciamo cadere. Ma c’è da capire se la «pistola puntata», questa sorta di promemoria armato, è caricata a salve o se chi la impugna fa sul serio. Il sospetto è che si tratti di una «minaccia fredda», un deterrente, con la speranza di non dover mai premere il grilletto. La speranza dei finiani, in questo strano Parlamento, è che «Pdl Italia» sia un pezzo di maggioranza che gioca anche un po’ a fare l’opposizione. È una strategia di confine. Ai suoi uomini ha detto: «Ho fondato un partito, sono pronto a rifondarne un altro. Se l’unico modo di ottenere le cose è fare come la Lega, allora anche noi ci travestiamo da lupi. Saremo una forza di lotta e di governo». L’importante è non far cadere davvero il governo. Questo a Fini ancora non conviene. Primo. Non vuole assumersi lui questa responsabilità. Non vuole spegnere il famoso cerino. Il presidente della Camera sa che, senza un vero casus belli, finirebbe per passare come il disfattista, lo sfasciagoverni. Non è il modo migliore per presentarsi agli elettori. Non solo. Non può essere lui, che indossa da tempo il vestito di riformatore, a castrare nella culla la stagione delle riforme. Quindi? Ci vuole tempo e pazienza. Il gruppo parlamentare è un incubatore. L’obiettivo è segnare la distanza dal Pdl numero uno. Questo è un fattore importante. Fini, da anni, prova un fastidio estetico e culturale verso il berlusconismo. Non ci sono solo ragioni politiche. Il ruolo della Lega, l’immigrazione, la bioetica sono questioni dove si può trovare, magari battendo i pugni, un compromesso. Qui c’è qualcosa di più. Si è rotto il rapporto umano. Fini non si riconosce nel Pdl come non si riconosceva più in An. Non gli piace lo stile. Non sopporta i compagni di viaggio. Fa capire che non vuole avere nulla a che fare con la maggior parte dei vecchi colonnelli. In qualche modo si sente più vicino a un D’Alema o a un Casini. È l’imprinting di una politica pre-berlusconiana. È l’antipatia viscerale per il «meno male che Silvio c’è». Solo che la scommessa di Fini non è facile. E anche lui teme il grande salto. Il gruppo parlamentare, in fondo, non è un divorzio. Ma è la scelta di chi vuole il divorzio ma resta a vivere nella stessa casa, con i letti separati. È un temporeggiare in attesa di risistemare la propria vita e forse un modo per non essere accusato di abbandono del tetto coniugale. «Non siamo noi i traditori del patto. Ma sono stanco di essere preso in giro, Berlusconi è venuto da me per fare retorica». Fini farà il suo partito? Dipende. La strategia del gruppo parlamentare funziona solo se l’ex leader di An resta presidente della Camera. Altrimenti dovrà andare via di casa. Sono mesi che sta lavorando a un’ipotesi di partito. È un paracadute. È un’ipotesi, ma il progetto esiste.

È il partito delle riforme, con i finiani, gli ex Forza Italia del Nord costretti a cedere il passo, soprattutto in Veneto e Piemonte, ai leghisti, i soliti centrini in fibrillazione e qualche naufrago della sinistra. A quel punto Fini dovrebbe andare davanti agli elettori e incrociare le dita. I sondaggi, qui e adesso, lo danno battuto. Non gli resta che farsi un futuro.

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