Fini apre alle riforme del Pd

Lo strappo: "Ripartiamo dalla bozza Violante". E la sinistra applaude. La "destra chic" di Fini difende gli stranieri con metodi da Ventennio

Fini apre alle riforme del Pd

Roma - Questi giorni a sinistra sono carichi di malinconia. Non è passato neppure un mese da quando è stato scelto come segretario del Pd, ma di Pier Luigi Bersani si sente parlare davvero poco. È lì confinato su una poltrona che non fa notizia, oscurato dalle sconfitte di D’Alema, dalle investigazioni e dalle piazze di Di Pietro e soprattutto da Gianfranco Fini. La leadership del Pd, quasi per un errore nella bussola, è trasmigrata a destra. È lì che si svolge tutta l’azione, e questo non lo dicono le pagine di Farefuturo, non lo certifica Il Secolo, ma si legge negli sguardi di chi sta a sinistra, nelle parole buttate lì, nella ricerca disperata di qualcuno che abbia una manciata di carisma. Fini sfida la Lega, Fini sceglie Balotelli come figurina, Fini va da Fazio, Fini rilancia il pensiero ghibellino, Fini fa opposizione, Fini fa politica, Fini ci crede, non è un volto sfocato all’orizzonte.
Fini, per la sinistra, è come Jerry Quarry. Molti lo hanno dimenticato, ma è stato un buon pugile (almeno così assicura Rino Tommasi). Nel 1970 affrontò Muhammad Ali, al rientro dopo la squalifica, e Floyd Patterson. Biondo, 1.83 di altezza per 88 chili, Quarry era considerato «la grande speranza bianca».

La sinistra guarda il presidente della Camera e vede l’ultimo antidoto democratico contro Berlusconi. Il resto è un altro sport. È il ring spurio della magistratura. È il banco che viene fatto saltare con un’azione politica di un potere extrapolitico. È un’altra storia. Qualche tempo fa, a fine ottobre, Fiorella Mannoia scrive una lettera proprio a lui, all’ultima speranza antiberlusconiana: «Sicuramente ha capito (e ahinoi non ci vuole molto) che a sinistra c’è un vuoto, e che gli elettori sono giustamente disorientati, arrabbiati, disillusi. Onorevole Fini, io non lo so, ma la prego, se lei è davvero in buona fede, ci aiuti a venirne fuori. Si liberi della sua attuale coalizione, vada avanti, formi un partito conservatore di gente onesta». Fini va alla ricerca di quel vuoto. Ha solo un problema d’identità. Ma si può trovare, magari strada facendo. Non è più il segretario del Msi di tanti anni fa. Non è più il fascista. Non è più il delfino di Almirante e neppure quello di Berlusconi. È la speranza antiberlusconiana.

Domani, alle cinque della sera, a Montecitorio, Fini presenterà il libro di Rosy Bindi Quel che è di Cesare. E con lui ci sarà anche Bersani. Ancora in ombra. Ancora messo in seconda fila. È Fini che ieri, nelle stanze del Corsera, mentre parla del suo libro, prende in mano il dibattito sulle riforme e rilancia la «bozza Violante». Ecco, dice, come cambiare l’architettura costituzionale in tempi stretti. È d’accordo D’Alema. È d’accordo Bersani. Ma è Fini che lancia la volata. Tanto che a un «extraparlamentare» come Oliviero Diliberto tocca gridare: «Bozza Violante? Questa è la prova dell’inciucio».
È Fini che smorza il processo breve: «Non è una riforma della giustizia, ma un provvedimento sui tempi della giustizia». E poi rilancia l’immunità parlamentare. La sinistra non può che inseguirlo. È lui che detta il passo.

Non si sente un eretico, occupa solo uno spazio bianco, lì dove c’è posto. Fini mostra, come in uno specchio, quello che da tempo è ormai palese. La sinistra italiana è evaporata. Non c’è più. È un simulacro che per sentirsi carne e sangue è costretta a ripetere senza sosta il rito magico della piazza. Ma è solo apparenza. È supplire alla mancanza di idee e di carisma con la processione sacra di una chiesa che non c’è più.

La vita in fondo è un caso. Lo stesso Fini racconta come diventò di destra: «Non avevo precise opinioni politiche.

Mi piaceva John Wayne, tutto qui. Arrivato al cinema, beccai spintoni, sputi, calci, strilli perché gli estremisti rossi non volevano farci entrare. E così per reagire a tanta arroganza andai a curiosare nella sede cittadina della Giovane Italia».

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