Fini in minoranza anche tra gli ex An

In 56 danno solidarietà al presidente della Camera, mentre 76 lo avvisano: non lasceremo mai il nuovo partito. Attorno all’ex capo solo una corrente di scaricati e insoddisfatti, ma pronti alla guerriglia: il vero rischio è questo. Archiviata la scissione, al leader resta una frangia pronta al ricatto quotidiano

Nessuno voleva davvero che finisse così. Una linea tracciata per terra, un confine, una cicatrice, una conta: 56 di qua, 76 di là. Questo è quello che resta di An.
È una giornata che non fa sconti. Una di quelle in cui metti sul piatto passato, ricordi, il rapporto con lui, con Gianfranco, e la sua idea di futuro. La «questione Fini» non è solo una firma sotto un documento. È uno strappo, una lacerazione. Si è incancrenita e ora fa male. È per questo che tutti si affannano a precisare che questo non è un referendum su Gianfranco. Non è un chi sta con chi. Non è una questione di numeri. Meglio smussare la realtà. Solo che la conta è fatta.

Ci sono due documenti che qualcosa dicono. Se Fini lascia il Pdl 76 parlamentari di An non lo seguiranno. Il vecchio capo non ha più il suo partito. È una minoranza della minoranza. È un uomo sulla scialuppa, che deve ricominciare a navigare, tracciare una nuova rotta politica, ancora tutta da definire. Non è una sconfitta. È una scelta e come sempre accade non è gratis. Qualsiasi cosa faccia Fini domani o tra tre anni una cosa è certa: la sua classe dirigente, i suoi colonnelli, i suoi uomini non saranno più gli stessi. Tre ministri di questo governo non sono con lui. Altero Matteoli, uno che l’ha seguito ovunque, da qualche tempo dice che non lo capisce più. Giorgia Meloni magari lo fa con una ferita al cuore, ripete che la sua firma è per il Pdl e non contro Fini, ma di fatto sta dall’altra parte. Ignazio La Russa rimpiange certe giornate passate nel ghetto, ma il suo volto fa capire che questa storia soprattutto lo preoccupa. Quasi lo sussurra: forse era perfino meglio una scissione. «Questa condizione di minoranza organizzata non mi lascia tranquillo». I motivi non sono difficili da immaginare. I «finiani» rischiano di diventare un collettore di scontenti, un centro che crea perturbazioni e raccoglie intorno a sé i delusi, gli insoddisfatti, i senza poltrone, i rimossi o scaricati. Tutti quelli, anche ex Forza Italia, che al Nord guardano con preoccupazione la carica leghista. Il timore è avere in casa un gruppo che giocherà alla politica della guerriglia, snervante, puntigliosa, una «metastasi» direbbe lo stesso leader di An. E questo è il prezzo che Berlusconi deve pagare. Anche lui ha fatto una scelta. Non arrivare al chiarimento definitivo con il suo alleato storico. Quel «stai con me oppure no» che in tutta questa lunga storia resta ancora sul tappeto, come una questione tabù, come il nodo che nessuno ha il coraggio o la voglia di sciogliere.

Questa giornata è servita a Fini a fare i conti con il partito di Fiuggi. Anche questa, in fondo, è una lunga storia. Qualche tempo fa il deputato Granata scrisse su Micromega che la scelta di Fini di entrare nel Pdl nasceva anche da una considerazione: «Ormai il mio partito si è berlusconizzato». Come a dire: tanto vale ratificare quello che già è un dato di fatto. Solo che quella delusione Gianfranco non l’ha mai digerita. Ha aspettato il dopo. Lo ha visto più vicino. Ci ha sperato forse ai tempi della «scossa», quando D’Alema parlava di un evento che avrebbe inguaiato il premier. Fini è stato lì a osservare un 2009 di veline, escort e Spatuzza. Si è lasciato scappare un fuori onda. E, giorno dopo giorno, ha messo su una sorta di «partito virtuale», con una politica alternativa, con le provocazioni radicalpop di Farefuturo, la ricerca di una nuova destra, più sobria, riformista, e soprattutto, se non anti berlusconiana, senza dubbio visceralmente lontana dal berlusconismo. Tutto questo è finito nel piatto di questa conta. Fini si è liberato ancora una volta del suo passato.

Questa giornata non ha invece chiarito nulla nel Pdl. Fini davanti ai suoi uomini, nella sala «Tatarella» di Montecitorio, non voleva scissioni, crisi, avventure estemporanee. Si è mosso su uno spartito moderato. Non ha fatto passi indietro, ma ha smussato tutti gli angoli. Ha in qualche modo preso le distanze dai finiani. «Un leader c’è ed è Berlusconi, che ha vinto le elezioni. Ma il Pdl che contributo ha dato? Che risultato ha avuto? Io voglio rafforzare il partito, non certo indebolirlo». Fini ancora una volta rimanda lo scisma. La sua tattica sarà giocare da battitore libero, cercando di contare come minoranza, come mina vagante, che diventa tanto più letale quando le condizioni si fanno più critiche. I suoi nemici nel Pdl parlano di «bomba ad orologeria» piazzata nel cuore del partito.

La conta, quella vera,

quella che coinvolge governo e maggioranza è lontana, molto lontana. I deputati finiani sono 39. Ma bisogna vedere quanti di questi, al momento opportuno, si vestiranno da kamikaze. Questi numeri riguardano An, non il Pdl.

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