Galleria Ponte Rosso Bartolini, De Amicis e Morelli I maestri di Brera

Galleria Ponte Rosso 
Bartolini, De Amicis e Morelli 
I maestri di Brera

Rinnovate suggestioni. Immagini pittoriche ricche di storia e di memoria, di emozioni, di vissuto. L’orizzonte è quello struggente dell’esistenza. Tele e tavole dai tratti tematici altamente espressivi, capaci di dialogare con i nostri sentimenti. Con una nuova esposizione dal titolo “Maestri a Brera: Bartolini, De Amicis e Morelli”, la Galleria Ponte Rosso di via Brera 2, che lungo gli anni ha saputo esporre il meglio della pittura italiana figurativa del Novecento attraverso rare collezioni, puntando a sottolineare l’importanza della pittura lombarda e in particolare milanese, ma non solo naturalmente. Il visitatore davanti a una trentina di quadri, a partire da quelli del fiorentino Ugo Vittore Bartolini che arrivò nel 1934 a Milano per avere ottenuto la Cattedra al Liceo Artistico di Brera, fino alle opere di Cristoforo De Amicis, autore sensibile e riservato, per arrivare a quelle di Enzo Morelli, anche questi ultimi professori dell’Accademia milanese, nato Bagnocavallo ma con un lungo soggiorno di apprendistato ad Assisi. Iniziando a visitare la mostra (aperta tutti i giorni escluso il lunedì), spicca “Figura di donna nuda” del 1959, un’opera di mezzo secolo fa che ci fa scoprire tutta la modernità di un’artista che pur essendo rimasto nel senso della tradizione, ha saputo cogliere quella “lucidità formale” che i tempi imponevano. Stiamo parlando di Ugo Vittore Bartolini che ha avuto la sua ultima personale alla Ponte Rosso nel 1974 (l’anno prima della sua morte) e i cui temi pittorici hanno sempre appassionato per la loro varietà: figure femminili, interni, paesaggi, nature morte, riconoscibili da quell’armonia che li accomuna in quando la scena vuole durare nel tempo e non fissa mai l’istante, ma la durata che si apre con le sue pennellate al colore e a una “segreta percezione di elegia”, come sottolinea nel catalogo Stefano Crespi. Anche se non c’è dubbio che i suoi nudi affascinano come a ritrovare “l’onda del tempo”, una lieve ossessione, affliggente si potrebbe dire, una sorta di lontana memoria, di mito, di mistero e di silenzio. Quel bianco indicibile di quelle pelli di donna lisce riportano per armonia e studio della composizione cromatica e di luce, alle “musiche perdute degli strumenti musicali”. Dopo questa magnifica carellata di una dozzina di pezzi, lo spettatore si trova davanti ai lavori complessi di Cristoforo De Amicis, un’artista che si è sempre molto sentito sul piano umano ma anche sotto quello espressivo. “Paesaggio a Caldè” del 1962, un olio su tela, ci fa immergere in un’atmosfera lacustre dove alberi, rovi e mattoni di ville sembrano ruderi che cadono dolcemente verso spiacce incontaminate. Il figlio Piero, definisce i suoi quadri come lo specchio del ritratto interiore e intellettuale del padre, dove riservatezza, austerità, amore per una cultura europea, testimoniata da molte pubblicazioni, portano De Amicis a essere definito anche “il pittore dell’architettura”. A questa complessità di elementi che si mischiano in un’unica arte e stile, De Amicis giunge dopo una lunga ricerca della forma, del volume, del tono e del colore. La miscela è esplosiva e ne deriva una intensità di immagine rara per quell’epoca. Nei suoi lavori possiamo anche trovare una “rigorosa circolarità”, in quanto, ad esempio, gli autoritratti (alcuni dei quali pubblicati nella monografia della Galleria Ponte Rosso del 1970 con un’introduzione di Raffaele De Grada, in quanto , le figure, le nature morte o i paesaggi hanno un ritmo che tende a ripetersi, un filo rosso unisce i vari temi; da un lato la scansione architettonica dei suoi paesaggi e dall’altro quel fondo, che si potrebbe definire “ancestrale” delle sue figure. La posizione di Cristoforo De Amicis è a cavallo tra cultura razioanle allo stato puro e poesia, studio, conoscenza del linguaggio e istinto. A differenza di Morandi per De Amicis la natura morta diventa un atto compositivo, linguistico, uan rete di intrecci tra il fondo della tela, il colore, un oggetto come una conchiglia, un vaso o una caraffa. E se poi si aggiunge il bagliore di un vaso di fiori, allora la luce si sprigiona e la finzione sembra essere realtà. Per finire, quando ci si trova di fronte alle opere di Enzo Morelli che ha insegnato all’Accademia di Brera con Bacchelli, Vellani Marchi e Orio Vergani, l’incontro tra pittura e giornalismo è ben visibile. E’ con gli stessi che fonda il Cenacolo milanese Bagutta. Morelli ha una sensibilità acuta, è un uomo molto colto e ama provare tutti i temi per i soggetti dei suoi quadri. “Autostrada del 1960” è forse uno dei suoi quadri più astratti, moderni, i toni sono pacati, si potrebbe dire che i colori si sovrappongono e che gli orizzonti si allargano. Ed è proprio in queste sue alte espressioni che ritroviamo i luoghi di un percorso biografico, dai primordi allo spostamento sottile verso la metafisica. “Autostrada” è anche la metafora di un viaggio artistico, ricco di fascino e di suggestioni, ma fatto di occasioni colte al volo, attimi fuggenti.

Molto suggestivi sono anche i suoi disegni e acquarelli. In Morelli il nudo femminile “si declina in un gesto”, fatto con una leggera sospensione che rende tutto di una bellezza veramente evanescente. La mostra con i 30 capolavori, chiuderà il 6 febbraio.

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