Gela, tutta Confindustria sotto scorta

Dopo le proteste contro il pizzo i rappresentanti locali costretti a girare con le guardie del corpo. Nonostante le minacce della mafia sono 100 gli imprenditori che hanno già fatto outing

Gela, tutta Confindustria sotto scorta

Roma - Da un lato le ciminiere del Cane a sei zampe che ormai da 50 anni sono il simbolo di Gela, la città dove la mafia si chiama «Stidda» e dove governa il primo sindaco d’Italia dichiaratamente gay, eletto nel 2006, come esponente di una sinistra non allineata, con il 65% dei suffragi. Dall’altro l’eterno odore di zolfo delle miniere ormai chiuse e improduttive, sostituite dall’economia possibile nel cuore della Sicilia da una miriade di piccole imprese, alcune di alto livello tecnologico. Con punte d’eccellenza che dai paesi dell’entroterra più profondo come Serradifalco salgono su per l’Italia ed arrivano ad Asti. È in questo contesto che esplode la rivolta degli industriali contro il pizzo, è da li che gli imprenditori siciliani decidono che bisogna investire contro la mafia. Con il pieno sostegno di viale dell’Astronomia. Anzi Luca Cordero di Montezemolo rilancia: «Adesso è necessario un patto tra imprese e Stato. Adesso è necessario che le istituzioni siano autorevoli, presenti sul territorio e assicurino certezza della pena».

La prima conseguenza della rivolta confindustriale è evidente: il presidente della Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello, cammina con la scorta. Il vice presidente Antonello Montante, nonché leader della Confindustria di Caltanissetta,ha sempre accanto a sé gli uomini della sicurezza. Così il presidente della Confindustria di Agrigento, Giuseppe Catanzaro. Anche Marco Venturi, presidente delle piccole imprese e della Camera di commercio di Caltanissetta deve rassegnarsi a camminare con gli angeli custodi. E non sono i soli: camminano con la scorta anche alcuni imprenditori di Gela che hanno deciso di denunziare dopo anni di sopportazione e Andrea Vecchio, costruttore catanese che diventa simbolo di una sfida senza mezze misure al racket . È una escalation quella dei confindustriali antimafia, che ogni giorno segna punti a favore con nuove retate nelle varie città di clan di estortori, compreso l’arresto del capo palermitano, Lo Piccolo. Un successo evidente all’assemblea contro il pizzo a Palermo, dove più di mille studenti applaudono a scena aperta il presidente Ivan Lo Bello e con lui tutti gli imprenditori e commercianti le cui denunzie hanno già portato in carcere almeno 70 boss del racket. È partito dal cuore della Sicilia il primo segnale di rivolta, dopo l’arresto dell’allora presidente Pietro Di Vincenzo, grosso imprenditore edile, con un’attività che va dai dissalatori ai rifiuti, condannato definitivamente nel 2006 per associazione mafiosa. I suoi beni, 260 milioni di euro, sono stati requisiti e gestiti dal Tribunale in attesa delle decisioni di sequestro. Da quel momento entrano in scena i giovani imprenditori che costringono Antonello Montante, (proprietario di una azienda che fabbrica ammortizzatori speciali prima a Serradifalco,paese dell’entroterra, e poi dall’89 diventa anche proprietario di una azienda più grande ad Asti, in Piemonte), a diventare il nuovo presidente. Di recente ha anche avviato la produzione di una bicicletta che riproduce quelle fabbricate dal nonno nel suo paesino e che erano in dotazione alla polizia e ai carabinieri di allora. Una bici già famosa perché protagonista di un racconto di Camilleri che da ragazzo su quella bici sotto le bombe della guerra riuscì a rintracciare il padre senza mai «forare le gomme».

Con lui il 45enne Marco Venturi proprietario di un’azienda di alta tecnologia con sede a Caltanissetta e a Catania. Si occupa di controllare i materiali di costruzione, e anche di indagini geognostiche. Primo in Sicilia, a poco a poco è riuscito a salire su per l’Italia, sino a vincere la gara indetta dalla regione Lombardia per monitorare il livello di sicurezza della zona della Valtellina. Un incarico di cui va orgoglioso e che impegnerà la sua azienda per alcuni anni. Una piccola azienda con 70 dipendenti che quando il loro datore di lavoro ha subito minacce hanno subito scritto una lettera pubblica di solidarietà. Del resto Venturi con il nuovo gruppo dirigente è autore di un patto di successo con i sindacati per convincere i datori di lavoro a chiudere la prassi «della cresta sulla busta paga». Su mille euro in busta al lavoratore spesso ne arrivava la metà. Le minacce erano cominciate già nel 2004 quando bisognava scegliere il nuovo presidente di Confindustria: «Dimettiti bastardo» è il cartello che viene affisso davanti la sua azienda. L’anno dopo arriva una testa di coniglio in un busta a lui, a Montante, e ad altri due del gruppo dirigente, Massimo Romano e Giovanni Crescente. Sino ai giorni scorsi quando qualcuno entra di notte nelle sede confindustriale, mette sottosopra cassetti e scrivanie e ruba i dischetti della riunione dove era stato deciso che veniva buttato fuori chi continua a pagare il pizzo. Le nuove minacce sono tali da far impensierire il questore e il prefetto, che decidono di rafforzare le scorte, soprattutto a Lo Bello.

Sono già 100 gli imprenditori che hanno fatto outing sul pizzo e al processo contro gli estortori del clan Emanuello la motivazione con la quale il Tribunale accoglie la costituzione di parte civile è uguale alla

loro parola d’ordine: «L’estorsione blocca la libertà di impresa». Una prima e decisiva vittoria che convince gli imprenditori di Catania, di Gela, di Caltanissetta, di Palermo che denunciare non solo si deve, ma si può.

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